Galbraith: l’altra faccia dell’America

Il 30 aprile scorso è morto all’età di 97 anni John Kenneth Galbraith. Era innanzitutto uno studioso di economia politica e un affascinante divulgatore di quella scienza. Sapeva esporre in modo semplice, accessibile a chiunque, concetti complessi. Ricordo come esempio questa sintesi dell’idea di base della rivoluzione keynesiana “…il criterio base fu che il bilancio dello Stato avrebbe dovuto accollarsi qualsiasi contrazione, qualsiasi deficienza della spesa privata. Ogniqualvolta si fosse verificata in campo economico una contrazione della domanda aggregata in rapporto alla capacità produttiva, lo Stato sarebbe intervenuto. Riducendo le tasse o aumentando la spesa, o con una combinazione dei due interventi avrebbe accresciuto la domanda aumentato la produzione e riportato l’economia alla piena occupazione…” (da Galbraith/Mensikov, 1989 “le nuove prospettive dell’economia mondiale”, ed. Rizzoli). Era un intellettuale politicamente impegnato a servire il proprio paese dalla parte del partito democratico e, in particolare, fu ascoltato consigliere di due grandi presidenti americani quali Roosewelt e Kennedy. All’inizio fu anche con Johnson, ma poi lo lasciò perché si schierò con gli oppositori alla guerra in Vietnam. Come ricordava G. Ruffolo su La Repubblica del 1 maggio scorso, fu un temuto fustigatore di quella che chiamava la “saggezza convenzionale” intesa come “costante scambio di idee vuote e solenni così comune tra personaggio importanti e presuntuosi”, Tra queste, ad esempio, quella ancora così attuale dello “Stato azienda”. “Cara al pensiero manageriale perché intesa a instillare nei cervelli deboli l’equivalente tra business e democrazia”. Lo stesso trattamento lo dedicava al mito della concorrenza che dovrebbe trasformare l’interesse individuale in interesse collettivo, per cui – pur con qualche scetticismo per quanto attiene ai risultati – sostenne le battaglie dell’Antitrust e il contropotere dei sindacati e delle organizzazioni dei consumatori. Era un liberale che credeva nelle libertà civili e nel mercato, ma non nelle virtù taumaturgiche del mercato. Conosceva bene i rischi che si celano sotto la consunta formula continuamente riproposta del “laissez faire” con la creazione di nuovi, pericolosi privilegi e concentrazioni di potere. Convinto sostenitore della superiorità dell’interesse pubblico sull’interesse privato, fu tra i costruttori del “New Deal” dove svolse in modo molto efficace il ruolo di Mister Prezzi tanto da suscitare le ire di industriali e commercianti. Nella mia attività politica ho usato spesso una sua sintesi del concetto di solidarietà di chiara matrice keynesiana, ma ispirata, nelle ultime parole, pure da un forte sentimento di amore per la libertà, la cultura e, anche, per l’ironia: «lo Stato – diceva Galbraith – dovrebbe in primo luogo assicurare a tutti un lavoro. Poi se uno proprio non vuole lavorare non deve mancargli un tetto, una scodella di minestra e…i soldi per comperarsi i libri”. Una posizione diametralmente opposta a quella espressa recentemente sul Corriere della Sera da Piero Ostellino (6/5/06) secondo il quale il lavoro deve essere considerato una merce, come sosteneva (criticamente,ndr) anche Marx, e non un diritto per evitare che “l’idea del posto garantito prevalga sulla meritocrazia” (“meritocrazia”: altro concetto solenne, purtroppo troppo spesso vuoto, che troviamo spesso in bocca a persone importanti e presuntuose). Galbreith e Ostellino: fatte le debite proporzioni entrambi si richiamano alle idee liberali, ma forse ha ragione von Hayek quando ha proposto di rinunciare all’uso di questa parola perché troppo equivoca.

Pubblicato il

12.05.2006 14:00
Pietro Martinelli