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GCF, dall’abbandono dell’inchiesta in Ticino al processo a Varese

Venerdì nell’aula bunker di Varese si è tenuta la prima udienza relativa all’inchiesta sulle presunte infiltrazioni della criminalità organizzata nei lavori ferroviari italiani. Fra gli imputati, l’impresa CGF, il cui procedimento in Ticino è sfociato in un decreto di abbandono dopo l’accordo di indennizzo agli operai impiegati al Ceneri.

“La legge è uguale per tutti” campeggia nell’aula bunker del Tribunale di Varese, a due piani sottoterra dello stabile, dove lo scorso venerdì si è celebrata la prima udienza di un filone giudiziale dell’inchiesta “Doppio Binario” condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano (Dda) con l’accusa di aver infiltrato la criminalità organizzata nei lavori di ammodernamento della rete ferroviaria italiana e di altri reati, tra cui lo sfruttamento della manodopera.

 

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A dare un tocco di solennità le toghe nere e le rispettive cordoniere d’oro o d’argento a indicare il grado della quarantina d’avvocati difensori in un’aula bunker piuttosto affollata. Sul fronte dell’accusa, affiancata dalla collaboratrice personale, l’esperta Pubblico Ministero Bruna Albertini della Dda milanese. Parte lesa del processo, Rete ferroviarie italiane (RFI). Nessun imputato presente al dibattimento, anche perché alcuni ne sono impossibilitati essendo reclusi in carceri italiane. Tra gli imputati figurano i fratelli Edoardo e Alessandro Rossi, proprietari di Generali costruzioni ferroviarie (CGF), un colosso del settore sospettato dai magistrati di aver infiltrato esponenti del clan ’ndranghetista Arena-Nicoscia.

 

Di condizioni di lavoro alla CGF se ne era parlato a lungo anche in Ticino, dopo la denuncia inoltrata da operai attivi nel cantiere AlpTransit del Ceneri per gravi violazioni della legge sul lavoro. Nel particolare, sotto accusa vi erano giornate lavorative infinite (fino a 24 ore consecutive), lavoro ininterrotto per una ventina di giorni di fila, delle buste paga ritoccate al ribasso, assenza di permessi per guidare macchinari e indizi di caporalato. L’inchiesta aperta nel 2019 si è trascinata per diversi anni per concludersi infine lo scorso dicembre con l’emanazione da parte del procuratore Andrea Gianini di un decreto d’abbandono, a seguito dell’accordo extragiudiziale col quale GCF ha indennizzato integralmente le richieste avanzate dalla decina di operai tutelata dal sindacato Unia, come rivelato da laRegione.

 

Se l’inchiesta penale svizzera si è dunque conclusa con un accordo extragiudiziale civile tra le parti e il conseguente abbandono delle accuse alla società indagata, in Italia la magistratura prosegue il percorso nell’accertamento dei fatti imputati. Nel frattempo, diverse condanne e assoluzioni di imputati coinvolti nella medesima inchiesta sono già state emesse dalle varie istanze italiane.

 

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Ma torniamo all’aula bunker di Varese, dove la mattina del 30 gennaio il folto collegio difensivo dei fratelli Rossi è partito subito all’attacco contestando la competenza territoriale del Tribunale di Varese affinché la vertenza giudiziaria fosse trasferita alla sede di Catanzaro. Per un paio d’ore i presenti sono stati subissati di dotti e abbondanti eloqui farciti di riferimenti a numerosi articoli di legge accompagnati da commi e capoversi, nonché dagli imprescindibili richiami alle sentenze della Cassazione, da cui non si poteva altro che desumere, a detta dei loro estensori, l’inequivocabile giustezza del trasferimento del dibattimento. Un’esibizione di maestria dell’arte oratoria giudiziaria che al vostro povero ignorante cronista ha mestamente ricordato l’azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Alla forse ingenua domanda del cronista su quale fosse l’interesse dell’imputato nell’esser giudicato da una corte piuttosto che da un’altra, essendo la legge uguale per tutti indipendentemente da dove si celebri il processo, i dotti avvocati hanno risposto all’unisono: “È una regola costituzionale e pertanto deve essere applicata”. Nulla a che vedere con il prolungamento dei tempi, come malignamente si potrebbe essere indotti a pensare. 

 

Un’esibizione dell’arte oratoria giudiziaria che al vostro povero ignorante cronista ha mestamente ricordato l’azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Alla forse ingenua domanda del cronista su quale fosse l’interesse dell’imputato nell’esser giudicato da una corte piuttosto che da un’altra, essendo la legge uguale per tutti indipendentemente da dove si celebri il processo, i dotti avvocati hanno risposto all’unisono: “È una regola costituzionale e pertanto deve essere applicata”. Nulla a che vedere con il prolungamento dei tempi, come malignamente si sarebbe indotti a pensare. La Corte presieduta dal giudice Andrea Crema si esprimerà sulla competenza territoriale nella prossima udienza, fissata per il 21 febbraio.

Foto: aula bunker del Tribunale di Varese

(©Andrea Camurani-varesenews.it)

Pubblicato il

04.02.2025 14:03
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