La moglie Franca, figlia dell'esule antifascista Fernando Schiavetti, così descrisse il coniuge nella sua autobiografia Una famiglia italiana, edita da Feltrinelli nel 1990: «Mio marito era un giovanotto di 25 anni, piuttosto introverso, di bell'aspetto, con grandi occhi verdi, espressivi, malinconici. Da parte materna proveniva da una famiglia ugonotta rifugiatasi in Svizzera nel Seicento. Aveva trascorso i primi dieci anni della sua vita a Zagabria dove il padre faceva il commerciante, ma l'azienda fallì e la famiglia si ristabilì in Svizzera».
Il matrimonio tra Franca Schiavetti e Arnold Künzli fu celebrato nel 1944. Lei aveva 19 anni; lui, come detto, 25. Divorziarono nel 1952. Da tempo lei aveva stretto amicizia con un uomo politico del Pci, Valdo Magnani.
Franca Schiavetti-Magnani è scomparsa nel 1996; l'ex marito, il filosofo della politica Arnold Künzli, è morto quest'anno nel mese di febbraio, all'età di 89 anni.
Al lettore, questo nome, Arnold Künzli, dirà poco o nulla. Càpita spesso, nel nostro paese, che personaggi noti in una determinata area linguistica, siano invece dei Carneadi in quella contigua. E allora diciamo che Künzli è stato un filosofo, un docente, un militante molto attivo nella Svizzera tedesca, un punto di riferimento per molti negli anni della guerra fredda, una voce ascoltata soprattutto nei momenti di rottura: rivolta d'Ungheria (1956), invasione della Cecoslovacchia (1968), fatti di Polonia (1980), caduta del muro di Berlino (1989).
Künzli giunse tardi all'insegnamento universitario. Prima di ricoprire la cattedra di professore straordinario di filosofia politica a Basilea (1971), fu corrispondente per la National-Zeitung a Roma, Londra e Bonn. L'abilitazione l'ottenne con una "psicografia" di Karl Marx, un volume di oltre ottocento pagine (una rarità nel panorama della "marxologia" elvetica). Ostile al "marxismo-leninismo" d'impronta sovietica, subiva il fascino delle teorie che miravano a superare il capitalismo senza sacrificare la democrazia, la libertà e i diritti dell'uomo. Di qui il suo interesse per la "teoria critica" della Scuola di Francoforte, da Horkheimer ad Habermas; l'attenzione alle idee e ai movimenti di emancipazione (da Rousseau a Owen, da Fourier a Proudhon); il desiderio di porre le basi di un socialismo autenticamente democratico.
Ogni sussulto, ogni vibrazione proveniente da questi fronti, trovava in lui un interlocutore ricettivo. La "primavera di Praga", ad esempio, con il relativo ripensamento – promosso da Ota Sik – dei principi dell'economia pianificata. E poi l'"eurocomunismo" di Berlinguer, che lo indusse a compiere un viaggio di studio a Roma e a Bologna. Ancora: il dissenso nei paesi dell'est, la ricerca di Rudolf Bahro nella Ddr (Die Alternative), l'odissea di intellettuali come Leszek Kolakowski e Ágnes Heller, entrambi costretti a lasciare gli atenei dei loro rispettivi paesi, la Polonia e l'Ungheria, perché vittime di angherie. Tutto trovava spazio nei suoi "diari politici" che poi assumevano la forma del libro.
Ma un esperimento Künzli seguiva con viva passione e partecipazione: l'autogestione jugoslava. Appena poteva frequentava i corsi che il gruppo Praxis organizzava ogni estate sull'isola di Korcula, in Dalmazia. Qui alcuni marxisti critici s'erano dati come programma di riformulare il socialismo sulla base della produzione libera e auto-diretta, al di fuori degli schemi imposti dal partito unico e dalla pianificazione centralizzata. La speranza di questo gruppo era che la Jugoslavia di Tito – che già aveva manifestato "infedeltà" nei confronti dell'Urss – potesse diventare un laboratorio in cui "reinventare" il socialismo alla luce delle nuove opportunità offerte dal progresso tecnico e civile e dalla collaborazione internazionale. Purtroppo, anche qui, le speranze  (le illusioni?) sfumarono presto: il richiamo dei vari nazionalismi balcanici si sarebbe rivelato esiziale per le sorti degli innovatori.
Oggi la parola "autogestione" è sparita dal vocabolario della politica. Ma allora – anni '70 del Novecento – era considerata l'unica strada valida percorribile dopo l'evidente involuzione del "socialismo realmente esistente". Lo testimonia il programma del Partito socialista svizzero presentato al congresso di Lugano del 1982. Nelle pagine riguardanti l'edificazione della "nuova società", l'influenza del filosofo renano è palese: «Autogestione significa che gli uomini ricercano in comune le soluzioni dei problemi che li concernono. L'autogestione non è soltanto un principio organizzativo, bensì un atteggiamento fondamentale, una forma di vita che coinvolge ogni settore dell'attività umana: lavoro, famiglia, tempo libero, istruzione, cultura, ambito sociale ecc. L'autogestione comincia nella vita comunitaria, nell'abitare e nell'occupazione del tempo libero, nell'educazione e nell'istruzione così come nella ripartizione del lavoro fra uomo e donna».
Tra le righe di queste osservazioni filtravano l'eco dell'"autogestion" francese, l'esperienza delle comuni abitative ("Wohngemeinschaften"), i centri autonomi giovanili sorti a Zurigo, Basilea, Berna. Ma Künzli – che ispirò il programma del 1982 assieme a Peter Bichsel e François Masnata – scorgeva nell'"autogestione dei produttori" la prosecuzione di un'antica tradizione elvetica: quella fondata sulla democrazia diretta, la gestione comunitaria dei beni collettivi e il filone cooperativo. L'autogestione – osservò nel saggio Zur Philosophie der Selbstverwaltung pubblicato come introduzione al citato programma  – «è l'unica possibile, immaginabile, realistica e a lungo termine l'unica forma realizzabile di socialismo nelle nostre società e nel nostro tempo». Al di fuori di questo orizzonte, Künzli non vedeva che soluzioni autoritarie, calate dall'alto dalla nomenklatura di partito e gestite da burocrazie ottuse.
Della Svizzera non amava il conformismo, l'uso strumentale della "neutralità", il disprezzo che la classe politica riservava agli intellettuali che "osavano" sollevare interrogativi e porre domande scomode. Il paese gli appariva affetto dalla "nevrosi del riccio": ben difeso militarmente, ma incapace di aprirsi al mondo, se non attraverso i canali degli affari.
Künzli ha lasciato un'articolata opera. Innumerevoli le sue collaborazioni a giornali e riviste. Di lui comunque rimarrà, oltre alla citata "psicografia" di Marx (originale ma anche a suo tempo contestata), l'ampio affresco sulla storia dell'anti-proprietà, pubblicata nel 1986 in Germania sotto il titolo Il mio e il tuo (Mein und Dein): era, questo studio, l'approdo inevitabile del ragionamento condotto sull'autogestione. Künzli era ben consapevole che il passaggio-chiave era dato dalla "proprietà", e dalla proprietà dei mezzi di produzione in particolare. Su questo scoglio infatti s'era infranto sia il sogno cullato dai "socialisti utopisti", sia l'immane progetto d'ingegneria sociale avviato nel 1917 con la rivoluzione russa. Un capitolo – quello del governo dell'economia – tuttora all'ordine del giorno.

Pubblicato il 

06.06.08

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