Un viaggio, raccontato in modo molto piacevole, con empatia e autoironia, attraverso una miriade di esperienze professionali, politiche e umane di altissimo valore sociale accumulate in 83 anni di vita. Potremmo descriverlo così “Tante vite in una” (Edizioni Casagrande), il libro autobiografico di recente pubblicazione del dottor Franco Cavalli, oncologo e ricercatore di fama mondiale, politico, attivista e osservatore sempre attento e critico del mondo e della società. Cogliamo l’occasione per approfondire con lui alcune questioni affrontate nel libro. Dottor Cavalli, iniziamo dal medico. Come è maturata l’idea di studiare medicina e quanto ha che fare con l’anima sociale che ha scoperto sin da ragazzino? La scelta è stata quasi casuale ed è maturata solo alla fine del liceo. Anche perché a quei tempi, non esistendo la disoccupazione, avevamo la certezza che qualsiasi cosa si facesse, si aveva il lavoro garantito. Siccome nella mia famiglia non aveva mai studiato nessuno prima di me, non avevo figure che potessero farmi da guida e a quei tempi non c’erano gli orientatori che aiutavano gli studenti liceali a scegliere la facoltà. Avevo più o meno il sogno di fare il giornalista, perché mi piaceva scrivere ed era una sorta di tradizione di famiglia: mio nonno scriveva per il quotidiano socialista Libera Stampa e mio papà si cimentò con me quando avevo 14 o 15 anni nell’impresa di lanciare un giornale di Ascona, ma fu proprio lui a dissuadermi da questa carriera. Alla fine del liceo, anche se ero molto attratto dalle materie umanistiche e mi si consigliava di studiare storia o letteratura, mi sono trovato a dover scegliere fra le tre professioni classiche: l’ingegnere (che, pur essendo bravo in matematica, non mi stimolava), l’avvocato (che però vedevo come qualcosa di poco “pulito” in Ticino) o il medico, quella che si confaceva di più allo spirito sociale e nei confronti della quale non avevo delle resistenze. Devo dire che durante il primo anno ero molto deluso perché si faceva soprattutto botanica, fisica, chimica e sono stato diverse volte lì lì per smettere e passare a storia o letteratura. Ma ho resistito e poi, a partire dal secondo anno, con l’avvicinamento alle malattie e alle persone, ha cominciato a piacermi. Nel libro scrive di aver sempre cercato di applicare una metodologia scientifica alla politica e principi morali alla medicina. Ci racconta momenti in cui questo equilibrio è stato particolarmente difficile da mantenere? Se penso al lato politico, ci sono state sicuramente situazioni difficili per essermi trovato a dover prendere decisioni in base a interessi diversi e non adottando quella che dal punto di vista oggettivo era la migliore soluzione. Devo dire però che è molto più difficile mantenere l’equilibrio in medicina. Come racconto nel libro, sono da sempre convinto che ieri come oggi (siccome tante cose nel settore del cancro non le sapevamo e in parte ancora non le sappiamo) un’oncologia senza la ricerca non è concepibile. Quando rientrai in Ticino per poter fare della ricerca, dovetti scegliere il tema sulla base delle condizioni dell’epoca. Nella mia formazione mi ero dedicato soprattutto a tre settori: le leucemie, il tumore al seno e i nuovi farmaci. Sui primi due non c’erano possibilità di fare ricerca perché non avevamo né l’ematologia né la radioterapia e la diagnostica non era abbastanza sviluppata. L’unico settore in cui potevo mettere a frutto le mie competenze era lo studio dei nuovi farmaci, cioè quelli che subito appena usciti dal laboratorio vengono somministrati ai primi pazienti. E siccome questo lo si può fare solo in contatto con le ditte farmaceutiche, si pone continuamente il problema di mantenere la giusta via. I tentativi di corruzione (che ci sono stati e che descrivo) sono casi estremi a cui è relativamente facile dire di no. È più difficile essere oggettivi al 100 per cento nel cercare di non fare un minimo piacere a una determinata industria, che magari poi permetterebbe al tuo servizio di operare un po’ più tranquillamente: è un sentiero molto stretto, dal quale si può cadere facilmente da una parte o dall’altra. Bisogna quindi necessariamente avere convinzioni molto profonde che ti trattengono, che ti consentano sì di fare dei compromessi ma senza passare dalla parte sbagliata. L’industria farmaceutica indirizza anche i progressi nella lotta ai tumori? Quanto spazio di decisione ha nello stabilire se investire nella ricerca su un determinato tipo di tumore piuttosto che su un altro, magari perché meno diffuso? Sicuramente si può affermare che l’industria farmaceutica indirizza una parte importante della ricerca. Oggi più che in passato. Mentre 50 anni fa, la ricerca sullo sviluppo di nuovi farmaci contro il cancro era in buona parte fatta da istituti statali o parastatali, oggi è interamente delegata alle ditte farmaceutiche, che decidono quali prodotti sviluppare e quali no, prendendo spesso decisioni non in funzione della loro efficacia e della loro utilità ma del loro potenziale in termini di guadagni. Di conseguenza anche buona parte degli investimenti che vengono fatti a monte, quando si è ancora molto lontani da un’applicazione sull’uomo, ne risentono, perché l’industria farmaceutica li finanzia seguendo gli stessi criteri. Mentre, a parole e nei discorsi, tutti sottolineano che nella lotta ai tumori sono essenziali la prevenzione e la diagnosi precoce (il che è vero perché è così che si potrebbero ottenere risultati sensibilmente migliori più che attraverso lievi miglioramenti delle terapie), ma gli investimenti in questi ambiti sono minimi rispetto a quelli nel settore dello sviluppo dei nuovi farmaci. Questo perché l’industria farmaceutica non ha nessun interesse alla prevenzione o alla diagnosi precoce. Raccontando la battaglia per l’introduzione di un’oncologia moderna in un contesto arretrato come quello del Ticino dell’epoca parla delle resistenze delle autorità, dell’ostilità dei colleghi e della politica (“il Ticino politico mi vedeva come fumo negli occhi”), della mancanza di strutture adeguate. Come le è stato possibile realizzare tutto quello che ha realizzato e dal piccolo Ticino diventare una figura di riferimento a livello internazionale? È vero che ho incontrato molte resistenze, spesso dovute solo all’ignoranza, all’incapacità di capire i problemi o alla paura dei cambiamenti. Altre volte invece legate direttamente alla mia persona: l’Ordine dei medici mi accusava di non guadagnare abbastanza, di favorire solo il pubblico e di boicottare il privato, minacciandomi di espulsione, che a quei tempi voleva dire essere fuori dalla professione; a livello politico, il Gran Consiglio bloccò invece l’istituzione del registro dei tumori solo perché a proporlo ero io. D’altra parte però, sono stato favorito dal fatto che in Ticino si partiva da zero con l’oncologia e che nessuno prima di me si era occupato di ricerca: qui ho potuto costruire un servizio come volevo, mentre se fossi diventato capo a Berna o a Zurigo, dove c’erano delle strutture consolidate molto spesso assai conservatrici, avrei avuto molti più problemi a realizzare certe cose. Per esempio, lavorando allo sviluppo dei nuovi farmaci, per poterne valutare l’efficacia sui primi pazienti che li ricevono dopo i topi, è necessario tenerli in ospedale e osservarli minuto per minuto. E all’epoca i grandi capi della medicina degli ospedali universitari non permettevano all’oncologo di avere dei letti di cui essere responsabile: questa funzione spettava solo al primario di turno. In Ticino (e anche a San Gallo) non essendoci niente ho invece potuto sviluppare un centro in cui questo tipo di lavoro era possibile. Se un giovane Franco Cavalli arrivasse nell’oncologia ticinese di oggi, cosa cercherebbe di cambiare o di migliorare? Degli aggiustamenti sono sempre possibili, ma visto che nel campo dell’oncologia (che comprende anche la radioterapia, la chirurgia eccetera) praticamente in Ticino si può fare quasi tutto, la sfida fondamentale, per cui ci vorranno sicuramente 10-20 anni, è quella dell’ospedale universitario e di una facoltà di medicina completa. Così si garantirebbe la qualità a lungo termine e si scongiurerebbe il pericolo di perdere terreno rispetto al resto della Svizzera ricadendo nella situazione di 50 anni fa. Ma per fare questo bisogna investire nella ricerca: il Ticino ha deciso di creare la facoltà e ora ne abbiamo mezza, ma gli investimenti fatti sono nettamente inferiori a quanto sarebbe necessario. Ci si deve rendere conto che se si vuole una facoltà di medicina la si deve finanziare, anche perché essa è regolamentata a livello federale e se dovesse diventare scadente, Berna la farebbe chiudere. In varie parti del libro si spiega come le condizioni sociali siano concausa di malattie e come per il successo o il fallimento delle terapie oncologiche siano determinanti le condizioni materiali e psicologiche dei pazienti. Crede che ci sia sufficiente consapevolezza di questo aspetto nella classe medica? Sicuramente no. Da un lato, anche se le cose si stanno modificando, perché i medici sono storicamente in gran parte figli di medici, che appartengono a un’élite con una posizione sociale molto alta e abbastanza lontana dal realizzare le condizioni in cui vive veramente la gente. All’epoca della mia formazione non se ne parlava del tutto. Oggi un po’ di più ma non ancora abbastanza. Anche perché la correlazione tra condizioni sociali e malattia non è evidentissima e non si può facilmente misurare, a differenza per esempio di quella tra il consumo di sostanze nocive come il tabacco e le patologie da fumo. C’è però un dato di fatto chiaro: l’aumento delle disuguaglianze e il peggioramento della situazione sociale di buona parte della popolazione sta aumentando le differenze in termini di aspettative di vita. I numeri più chiari sono quelli della Gran Bretagna, dove a partire dagli anni 70 la differenza nella mortalità o nell’aspettativa di vita tra le classi sociali è andata continuamente diminuendo fino agli anni 90, quando hanno cominciato a farsi sentire gli effetti delle politiche di austerità avviate da Margaret Thatcher e il divario è tornato a crescere. Oggi ci sono quartieri di Glasgow o del nord dell’Inghilterra dove la differenza nell’aspettativa di vita tra il 10% più povero e il 10% più ricco della popolazione è di 20 anni. Altri dati sull’Inghilterra, ma che valgono anche per il resto dell’Europa occidentale, ci dicono che tra gli uomini 3-4 casi di tumore su 10 (nelle donne un po’ meno) sono legati alla condizione sociale: nel senso che gli operai fumano di più, mangiano peggio, non fanno sport, vivono in condizioni di maggiore stress favorendo così lo sviluppo di certi tumori. Oltretutto ci sono differenze sempre più marcate anche nel trattamento che i malati ricevono. Anche in Svizzera: alcuni anni fa a Ginevra uno studio ha per esempio accertato che negli uomini con il tumore della prostata il 10% più ricco vive il doppio rispetto al 10% più povero. È insomma fuor di dubbio che l’influenza della condizione sociale sullo sviluppo delle malattie e sul risultato delle terapie stia aumentando. In Svizzera, l’iniquità del sistema di finanziamento della sanità in cui il povero paga come il ricco è una concausa? Conosco diversi casi di diagnosi tardive (che possono comportare terapie più invasive o con meno successo) riguardanti persone in condizioni economiche modeste ma senza diritto ai sussidi che per pagare il meno possibile di cassa malati optano per franchigie elevate e che tendono a non recarsi dal medico, anche in presenza di sintomi seri. È un fenomeno che si osserva in oncologia, ma anche in cardiologia, come confermano i dati del Cardiocentro di Lugano. Oltre alle tante vite vissute, nel libro si raccontano anche alcune non vissute, come la carriera accademica che ha rifiutato o, come politico, quella di membro di un esecutivo (del Consiglio di Stato o addirittura del Consiglio federale) a causa di una serie di circostanze. È stato meglio così o ha dei rimpianti? La carriera accademica l’ho avuta come professore titolare all’università di Berna, dunque senza il potere del professore ordinario, una cosa però che, conoscendo un po’ le lotte intestine dentro le facoltà, certamente non mi è mancata. Per quanto riguarda l’esecutivo, è una questione che si è posta a più riprese, quando sarei potuto diventare consigliere di Stato. Ma questo avrebbe significato dover lasciare il posto di primario di oncologia, cosa che non ho mai voluto fare perché ritenevo di essere più utile da quella parte che dall’altra. Il Consigliere federale invece probabilmente l’avrei fatto, soprattutto se ci fosse stata la possibilità di guidare il Dipartimento degli Interni e quindi di occuparmi di politica sanitaria. Dunque con la possibilità di fare cose almeno altrettanto importanti di quello che fa un oncologo. Purtroppo (non so se purtroppo), dopo essere stato considerato un papabile (senza che io avanzassi alcuna pretesa di candidatura), mi sono un po’ tagliato l’erba sotto i piedi con alcune posizioni un po’ radicali quando rivestivo la carica di capogruppo socialista alle Camere federali (1999-2002, ndr). Inoltre, quando è giunto il momento di sostituire Ruth Dreifuss, il partito decise che a succederle doveva essere una donna. Una scelta che mi appariva giusta e a cui non mi sono evidentemente opposto. Ritiene che esistano le condizioni perché un consigliere federale socialista possa fare il socialista dentro il governo? Attualmente no. La questione della partecipazione socialista nei governi (federale come cantonali) credo sia da valutare a seconda della situazione del momento. Negli anni della costruzione dello stato sociale è stata una presenza sicuramente positiva e utile al paese, ma con l’avanzare del neoliberismo e del netto dominio del centro-destra in Svizzera è diventata sempre meno utile perché si sono ridotte le possibilità di realizzare qualcosa. L’ultima che in parte ci è riuscita è stata Ruth Dreifuss (1993-2002, ndr). Basta guardare quello che stanno facendo i due attualmente in carica: Baume-Schneider è impegnata nel combattere tutte le iniziative progressiste della sinistra e dei sindacati mentre Jans sui rifugiati fa una politica che potrebbe essere quella di un liberale o di un UDC moderato. Sono convinto che sarebbe un buon momento per una cura di opposizione. Anche perché all’interno del partito socialista ci sono dei segni di risveglio di una sinistra vera e gli attuali dirigenti, pur con tutti i limiti, sono migliori di quelli di vent’anni fa. Lei è sempre stato un’anima molto critica all’interno del PS. Nel libro racconta tra l’altro della possibile scissione che in Ticino si sarebbe potuta consumare con l’entrata in governo di Pietro Martinelli nel 1987 e in un’intervista di una ventina di anni fa diceva di aver pensato più volte di uscire dal PS. Oggi quali sono le relazioni col partito? Ho tuttora la tessera ma non partecipo più alle attività. Sono insomma un militante passivo per il PS, mentre il mio impegno politico prosegue con il Forum e i Quaderni Alternativi. Se avessi vent’anni di meno probabilmente a questo punto rilancerei la costruzione di una sinistra all’interno del PS, come avevo già tentato di fare nei primi anni Duemila, quando però non c’erano le condizioni oggettive. Oggi invece, quanto sta facendo Bernie Sanders negli Stati Uniti, Mélenchon in Francia o il fatto che in Germania alle ultime elezioni tedesche, nonostante la spaventosa avanzata della destra dell’AFD, la maggioranza dei giovani tra i 18 e i 24 anni abbia votato per la Linke, sono segni che degli spazi ci sono. E quindi ci proverei. Per passare al suo impegno umanitario internazionale di cui racconta diffusamente nel libro, cosa ci può dire della situazione attuale di Cuba e di quell’esperienza politica, cui dedica un capitolo dal titolo eloquente “Cuba mi amor”? La situazione attuale di Cuba è drammatica. Non è mai stata così difficile. La ragione principale è l’asfissiante blocco economico che dura ormai dal 1960, cui si aggiunge il suo inserimento da parte di Trump nella lista dei paesi che sostengono il terrorismo, cosa assolutamente demenziale ma che limita ogni accesso di Cuba ai finanziamenti internazionali e impedisce la ripresa del turismo, perché chi va a Cuba non può più mettere piede negli USA. Una situazione simile si era presentata negli anni Novanta con la caduta dell’Unione sovietica che portò al dimezzamento del PIL, ma allora c’era Fidel Castro con il suo carisma e inoltre i cubani non potevano espatriare. Oggi invece la gente può andarsene: 800.000 negli ultimi due o tre anni e oltretutto molto ben formati. A tutto questo hanno però contribuito in parte anche la burocrazia che rallenta le riforme necessarie e un certo dogmatismo che porta a non riconoscere i problemi. Che cosa spera rimanga ai lettori di questa autobiografia? Vorrei che si capisca che nella vita non bisogna limitarsi a guardare il proprio orticello, ma darsi la pena di vedere il mondo intero (e non solo attraverso i social media). Spero inoltre che il libro faccia capire l’importanza di avere uno spirito critico, che, pensando all’attualità politica, significa rendersi conto che molto spesso quello che raccontano i media non corrisponde alla realtà e che quindi è necessario pensare, sempre, con la propria testa. Come ha vissuto la rivoluzione tecnologica e come guarda allo sviluppo dell’intelligenza artificiale? Dal punto di vista informatico sono abbastanza “analfabeta”, perché ho sempre avuto il privilegio di poter contare sulla collaborazione di segretarie e di poter dettare i miei scritti (compreso il libro). Come ogni privilegiato mi sono dunque potuto concedere il lusso di imparare solo le operazioni essenziali. L’intelligenza artificiale, come ogni progresso porta vantaggi e pericoli a dipendenza di come la si usa. Se penso al disastro delle cure oncologiche nel terzo mondo, dove mancano patologi, radioterapisti e altre figure fondamentali e dove non è nemmeno pensabile riuscire ad averli, con l’IA in parte si potrebbe risolvere il problema: un piano di radioterapia per un paziente in Congo può essere tranquillamente allestito a Bellinzona e trasmesso e irradiato a Kinshasa, dove non è necessaria la presenza di un fisico. D’altra parte dietro l’IA si celano anche enormi pericoli: si pensi, soprattutto in questo momento di follia bellicista, ad un suo impiego sui terreni di guerra. |