A dipendenza delle condizioni o scelte specifiche di vita, in famiglia o nella collettività, determinate persone sono tenute ad assumere determinati ruoli a sostegno di altri. Nella maggioranza dei casi, queste persone devono essere forti per ovviare alle debolezze, alle esitazioni o alle difficoltà altrui. Si vedono riconosciuto un compito di guida, consiglio o accompagnamento sul piano umano, mentale ed emotivo.
Sono madri o padri, maestri o insegnanti, medici o psicologi, assistenti sociali o preti, frati o suore, catechisti, infermieri, agenti di sicurezza o altro ancora. A causa dell'impegno preso o attribuito loro, spesso tali individui non possono permettersi (o non si permettono) di manifestare fragilità, limiti o dubbi. La struttura stessa della nostra società, fondata sulla potenza, sul dominio, sulla prepotenza, sull'efficienza e sull'affidabilità, non consente loro sbavature o pecche. Volenti o nolenti, quanti sono chiamati a svolgere un servizio direttivo o ad essere per altri un punto di riferimento, di fatto, sono spesso costretti ad essere come super-uomini infallibili e sempre disponibili.
Un simile atteggiamento, non mi sembra sano né dal punto di vista psicologico, né da quello spirituale. Anzi, in prospettiva cristiana, per quanto ciò paradossale sia (ai giorni nostri, come già duemila anni fa!), è il difetto ad essere indice di forza autentica. I criteri di giudizio correnti sono come capovolti. Per san Paolo come per altri autori del Nuovo Testamento, i valori abituali dell'umanità, considerati persino virtuosi (quali, ad esempio, l'esibizionismo o la sopraffazione), sono sovente contrapposti alle qualità trascendentali.
Secondo il Vangelo, si può affermare senza timore di smentita che l'opzione preferenziale per gli anelli più deboli della società meglio corrisponda alla vera natura divina e, di conseguenza, ad ogni autentica credenza religiosa e al profondo anelito umano, ben più che qualsiasi visione di onnipotenza e supremazia.
Se è difficile impostare un discorso sociale sulla base dell'arrendevolezza, dell'apparente inconsistenza o dell'esilità, nondimeno ritengo necessaria un'approfondita riflessione sulle fondamenta collettive e sugli orizzonti che seguiamo.
Di primo acchito, puntare sulla fragilità risulta poco ragionevole, ma di sicuro è indice di rispetto dell'altro anche nella sua sofferta limitatezza, nonché di speranza di un vero cambiamento nel modo d'impostare le nostre interazioni. Si crea così lo spazio in cui è giusto essere quel che si è, senza finzioni né costrizioni, perché è circuito di sincera amicizia, accoglienza disinteressata e fratellanza vissuta magari nelle lacrime o nella gratitudine.

Pubblicato il 

29.01.10

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