In un paese legato alle tradizioni come il Marocco, a sei anni dalla riforma del diritto di famiglia, le associazioni femminili continuano a battersi per fare in modo che i principi fissati non rimangano solo teorici.

Nel mondo arabo-musulmano, tradizionalmente, lo statuto sociale della donna è legato al matrimonio, ed è solo dopo aver dato alla luce un figlio maschio e averlo "consegnato alla società" con la circoncisione (che simboleggia il distacco dalla madre), che la donna viene considerata una persona adulta e in grado di dare un contributo alla comunità.
Per lottare contro questo tipo di strutture tradizionali, con valori e pratiche che contribuivano alla marginalizzazione della donna, negli anni ottanta sono nati in Marocco i primi movimenti femminili. Tra questi l'Unione dell'azione femminile (Uaf), un'organizzazione non governativa costituita nel 1987. Al momento della sua creazione, uno degli obiettivi della Uaf era la modifica della Legge sullo statuto personale (moudawana), vale a dire il diritto di famiglia marocchino. Questo era in vigore dal 1958 e, inserendo nella Legge una serie di regole legate alla tradizione (poligamia, divieto per la donna di chiedere il divorzio, diritto del marito di ripudiare la moglie, tutela della donna anche se maggiorenne, ecc) legittimava la discriminazione delle donne.
Nel 1992, le organizzazioni femminili marocchine riuscirono a raccogliere un milione di firme a favore di una modifica della moudawana, costringendo così il re Mohammed VI a prendere posizione in merito e ad aprire il dialogo tra le organizzazioni e il mondo religioso. Dopo dodici anni di discussioni tra intellettuali, teologi, militanti e giuristi, nel 2004 arrivò finalmente la riforma.
In molti oggi concordano nell'affermare che la riforma del diritto di famiglia rappresenti un passo avanti per i diritti delle donne in Marocco, ma che, a sei anni dalla sua entrata in vigore, tra la teoria e la pratica esista ancora un abisso. Come conferma Ouadiä Alami, presidente della sezione di Fez dell'Uaf: «dal 2004, le donne marocchine non hanno teoricamente più bisogno di un tutore per sposarsi, hanno diritto di chiedere il divorzio e, in caso di separazione, non vengono più gettate in strada con i loro bambini, ma possono pretendere che l'ex-marito versi loro gli alimenti e hanno diritto alla metà dei beni acquisiti durante il matrimonio – spiega – Purtroppo però, tra quanto prescritto dalla nuova Legge e quanto succede nella realtà, il divario è ancora grande». La popolazione marocchina è infatti molto legata alle tradizioni e sei anni sono pochi per pensare di averle sradicate. Inoltre, il tasso di analfabetismo è ancora alto (circa 40 per cento), cosa che non aiuta la diffusione dell'informazione sulla nuova Legge.
Ad esempio, prima della riforma il limite minimo di età per sposarsi era di 18 anni per i ragazzi e 15 per le ragazze (che dovevano avere il consenso del padre). La riforma lo ha portato a 18 anni per entrambi i sessi, quindi, secondo il nuovo diritto di famiglia il matrimonio di minorenni dovrebbe rappresentare un'eccezione, accordata dal giudice solamente in casi particolari e con rigide restrizioni legali. «In realtà, la povertà e l'abbandono scolastico delle ragazze, spingono ancora molti padri, soprattutto nelle regioni rurali, a chiedere questo genere di eccezioni. La cosa grave è che la decisione sia lasciata alla discrezione del giudice, che a volte non è nemmeno formato sul nuovo Codice oppure ne è contrario di principio», spiega Alami, che prosegue: «Ancora oggi, un matrimonio su dieci in Marocco riguarda delle adolescenti di 15 o 16 anni, a volte anche di 13 o 14, e questo nonostante il limite minimo di età per chiedere delle eccezioni sia fissato a 17 anni».
Fatima El Maghnaoui, direttrice del centro di Rabat per l'aiuto alle donne vittime di violenza, spiega che «l'esperienza di chi opera sul terreno dimostra che c'è ancora molta strada da fare, soprattutto per quanto riguarda i matrimoni di minori, il pagamento degli alimenti e la ripartizione dei beni in caso di divorzio, ma anche per la libertà delle donne maggiorenni, che vengono ancora tenute sotto la tutela di un uomo. Bisogna cambiare le mentalità, non è una cosa facile e richiede del tempo».

Imparare e diventare autonome

In un contesto difficile per la condizione femminile, come può essere quello marocchino, l'Organizzazione non governativa Unione dell'azione femminile (Uaf) lavora da quasi trent'anni per sensibilizzare la società civile sui vari aspetti della vita delle donne e rivendicare una situazione migliore. È in quest'ottica che, nel 1994, l'Uaf crea a Fez il centro Dar Lamaalma (casa del maestro artigiano), un centro di formazione per le donne provenienti da condizioni sociali disagiate. L'idea della casa del maestro artigiano, si rifà ad un'antica tradizione marocchina. Un tempo infatti, quella era l'unica possibilità per le ragazze di uscire di casa e formarsi ai mestieri dell'artigianato femminile.
L'obiettivo generale del centro è quello di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle donne della città di Fez, in particolare di quelle che vivono nella bidonville del quartiere Lido, dove si trova appunto il centro e da dove proviene la maggior parte delle sue frequentatrici. Nel quartiere Lido infatti, dove una volta vivevano le famiglie dei soldati francesi, oggi vivono molte famiglie di soldati marocchini. Qui il tasso di natalità è molto alto, i matrimoni sono precoci, la violenza è frequente e l'analfabetismo è diffuso. Inoltre, molti giovani abbandonano precocemente la scuola, contribuendo così a mantenere stabili le pessime condizioni del quartiere e della sua bidonville (che  peraltro lo Stato sta cercando di smantellare, spostando i suoi abitanti in un nuovo quartiere appositamente creato ai margini di Fez).
«Dar Lamaalma accoglie soprattutto donne vittime di violenza, in genere si tratta di violenza coniugale», spiega Ouadiä Alami, presidente della sezione di Fez dell'Uaf. Qui le donne hanno la possibilità di imparare un mestiere, viene offerta loro una formazione professionale in sartoria, moderna o tradizionale, a mano o a macchina. Questo durante un anno con un impegno di due ore al giorno. Oltre alla formazione professionale, il centro offre anche un servizio di accoglienza per i bambini che non sono ancora in età scolastica (permettendo così alle mamme di seguire i corsi senza doversi preoccupare dei figli) e dei corsi di alfabetizzazione e di sensibilizzazione ai diritti della donna.
«Nell'ultimo anno abbiamo accolto un centinaio di donne – spiega Alami – Il nostro scopo è insegnar loro un mestiere per far sì che possano essere in grado di guadagnarsi da vivere anche da sole, vogliamo renderle autonome e indipendenti». Alla fine della formazione, le donne devono sostenere un esame per ottenere un diploma riconosciuto dalla Camera del Commercio e dell'Artigianato di Fez. Questo permette loro di accedere al mercato del lavoro con delle competenze riconosciute e di buon livello, ma anche di accrescere la loro autostima. «Come associazione, abbiamo notato dei cambiamenti soddisfacenti nelle condizioni di vita delle donne che abbiamo formato, sia dal punto di vista della loro personalità, che nel loro modo di esprimersi e nello sviluppo della loro creatività. Ora succede che siano i mariti stessi ad accompagnarle qui per i corsi di alfabetizzazione e di sensibilizzazione, perché hanno capito che possono trarne anche loro dei benefici, soprattutto per quel che riguarda l'educazione dei figli», conclude Alami.

Pubblicato il 

02.04.10

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