Fiat, il futuro dentro un tunnel

Il 9 marzo di cinquant’anni fa la Fiat presentava al salone dell’automobile di Ginevra la sua nuova nata. Di fronte alla stampa mondiale specializzata fece così la sua apparizione la vettura che rappresenterà il simbolo della rinascita di un paese povero, uscito a pezzi dalla guerra: la Seicento. In quindici anni ne saranno vendute 2 milioni e 640 mila esemplari. Sulla vetturetta per famiglia (la concretizzazione di un prototipo disegnato dai lavoratori della Fiom prima che gli Stati uniti imponessero al ragionier Valletta di sterminare chiunque in odor di comunismo) correrà il boom italiano targato Fiat, un’industria privata in quanto a profitti e pubblica per gli investimenti, gli sgravi fiscali, le agevolazioni. L’Italia arriverà a sedere al tavolo dei potenti lasciando agli storici il ricordo dell’Italietta e la Fabbrica Italiana Automobili Torino riuscirà a contendere, sia pure per una breve stagione, il primato europeo dei costruttori di automobili al gigante tedesco, la Volkswagen, con l’occupazione di una quota di mercato vicina al 15 per cento. La storia gloriosa della Fiat è finita, forse sta nascendo una seconda, piccolissima storia ma sono in molti a non esserne convinti. Nessuno più sa quanti dei 298 mila dipendenti disseminati in tutto il mondo siano sopravvissuti alla crisi del Lingotto, ai licenziamenti, al blocco del turnover, alle dismissioni, alle ristrutturazioni. Della margherita a quattro ruote resta appena il motore e anche il motore batte in testa. Con qualche ragionevole certezza possiamo soltanto dire che dei 150 mila dipendenti del settore auto ne sopravvivono poco più di 30 mila. Gli stabilimenti sono stati chiusi uno dopo l’altro e oggi l’occhio assassino della crisi sta mettendo nel mirino Mirafiori, la fabbrica storica torinese, la più grande d’Europa, ridotta a poco più di un capannone dimesso. Intanto le vendite Fiat in Europa piazzano le marche italiane tra il settimo e l’ottavo posto, una presenza di nicchia. Una quindicina tra presidenti e amministratori delegati si sono succeduti alla guida della multinazionale sabauda, dai tempi neanche troppo lontani dell’avvocato Gianni Agnelli e del fratello Umberto. Ora la coppia al volante – il ferrarista Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne – gode di grande stima nel mondo dell’economia e della politica (a 360 gradi) e ci si aspetta che nell’arco di un paio d’anni i conti aziendali possano tornare in pareggio anche nel disastrato settore automobilistico. Finalmente a settembre sarà presentata la Nuova Punto, nella speranza di riportare la società nel mercato, sia pure con pretese decisamente ridimensionate. A guardarla bene, la Fiat continua a rappresentare lo specchio del paese Italia: in crisi la prima, in dura recessione la seconda messa anch’essa fuori mercato da una politica economica dissennata. E in entrambi i casi, la strategia per uscire dal tunnel non punta sul futuro, sulla ricerca e lo sviluppo, sull’innovazione, bensì sul ragionieristico risanamento dei conti attraverso l’abbattimento del deficit e la riduzione dell’indebitamento. Se e quando Fiat e Italia metteranno il muso fuori dal tunnel, bisognerà evitare di guardarsi alle spalle per risparmiarsi lo spettacolo cimiteriale: carcasse di professionalità, cultura industriale, saperi, vite di lavoratori su cui è stata scaricata ogni conseguenza di una gestione prepotente e irresponsabile. Lavorano bene, Montezemolo e Marchionne. Giurano agli azionisti di essere intenzionati a salvare l’automobile italiana. Tagliano i costi e riducono l’indebitamento. Peccato però che l’azienda che forse avranno risanato sarà ben poca cosa. I proprietari – la numerosissima e litigiosissima famiglia Agnelli – non intendono mollare l’osso, continuano a rimpolpare il loro gruzzolo nonostante i chiari di luna e gli ululati dei creditori: le banche che per decenni hanno foraggiato le imprese sventurate della Fiat si preparano a convertire il credito in azioni, una scelta obbligata motivata dall’esigenza di ridurre il danno. In questo scenario apocalittico i sindacati sono stati messi, con signorilità e parole dolci, alla porta. Non è tempo di trattative e discussioni, non è stagione di conflitti: siamo tutti sulla stessa barca, ripete Montezemolo, tocca ai lavoratori il compito di remare e al massimo, Fim, Fiom e Uilm possono battere il tempo. Il contratto integrativo non si rinnova, quello nazionale dei metalmeccanici neanche a parlarne. Bisogna tagliare tempi e costi, razionalizzare, flessibilizzare, attivare sinergie per risalire la china in cui una globalizzazione sbagliata e un accordo insensato (quello fallito con la General Motors) avevano fatto rotolare l’azienda. Alcuni sindacati si mostrano più comprensivi. Anzi “collaborativi”. La Fiom non sta al gioco e ha il merito di aver strappato con una lotta durissima una vittoria storica nello stabilimento di Melfi, il più moderno, quello dove lo sfruttamento è più scientifico, quello che verosimilmente si salverà dalla disfatta. I metalmeccanici della Cgil continuano a ripetere che le sorti della Fiat non sono un problema che riguardi soltanto i padroni torinesi e gli sventurati dipendenti: è in gioco il futuro industriale del paese che rischia di perdere la sua ultima grande azienda mentre il miracolo del piccolo e bello, del made in Italy, delle filiere del Nordest è esploso come una bolla speculativa sotto i colpi della globalizzazione neoliberista. Lo stato, ripete inascoltata la Fiom, deve farsi carico della Fiat entrando direttamente nel capitale, utilizzando cioè i soldi che nel corso di un secolo ha sempre regalato alla proprietà per orientarne invece le scelte, gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione. Un piano di salvataggio, insomma, di una storia industriale e di tante storie individuali. Nell’autunno molti nodi arriveranno al termine. Innanzitutto, bisognerà vedere come e se la Fiat tornerà a immettere nel mercato modelli competitivi. Nell’ultimo anno lo slogan del Lingotto era: meglio vendere meno ma in modo remunerativo. Risultato, di macchine se ne vendono pochissime ma per ogni macchina la società torna a guadagnare, comunque non perde. Non è necessario aver studiato a Harvard per capire che con questa filosofia di strada non se ne fa molta.

Pubblicato il

01.07.2005 03:30
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