Fame di libertà: detenuti politici nelle carceri turche a digiuno per protesta

Ci hanno avuti, siamo entrambi {in prigione. Io, tra le mura. Tu, fuori. Ma che importa di quello che ci {capita? La cosa peggiore È portare in sé la prigione (1) Così, il maggior poeta della letteratura turca del Novecento cantava, negli anni Quaranta, dalla cella della prigione di Bursa, l’amore per la libertà. Libertà di pensiero, di parola, di fede politica, libertà per il suo popolo. «Non è importante se viviamo o moriamo. Importante è il fatto che stiamo lottando per il nostro popolo, per renderlo più libero. Questo è il nostro contributo…»(2). Chi parla è Aydin Hanbayat, uno delle centinaia di detenuti politici in sciopero della fame a oltranza. Sessant’anni dopo, la democrazia (che non sia solo quella formale del rito delle elezioni) resta per il Paese turco una meta, una conquista da realizzare. La scorsa settimana in Turchia v’è stata la 45esima vittima dello sciopero della fame. La protesta è iniziata nell’autunno del 2000, dapprima all’interno delle carceri, estendendosi poi anche fuori, fra i familiari e compagni dei detenuti. Il mondo «civile» ebbe un breve sussulto, esattamente tredici mesi or sono, quando polizia ed esercito sferrarono l’attacco contro le carceri dove i detenuti erano in sciopero da due mesi. Le forze armate attaccarono gli edifici con carri armati e ruspe. Fu il massacro: una trentina di persone vennero uccise. Vi furono allora espressioni di condanna, diversi Paesi, fra cui la Svizzera, inviarono in seguito missioni diplomatiche ad Ankara, tutti verbalmente preoccupati del mancato rispetto dei diritti umani. Poi, passato il primo momento, ripresisi dallo stordimento per la dura repressione, le relazioni con il governo di Ankara sono tornate sui binari di sempre. Anzi, dopo l’11 settembre, il ruolo della Turchia nell’ottica della «guerra al terrorismo» (il terrorismo che colpisce l’Occidente, non certo quello che si abbatte, ad esempio, sui curdi di Turchia) è divenuto ancora più importante. La Turchia è infatti l’unico paese musulmano a far parte della Nato, ad avere stretto un’alleanza militare con Israele, fattori questi che l’attuale governo fa pesare con estrema abilità. Proprio di questi giorni il presidente Ecevit s’è recato a Washington per ottenere altri aiuti militari (che gli Usa non negano mai agli alleati più fidi) e sostegno finanziario, viste le drammatiche condizioni in cui versa l’economia turca. Ma il governo di Ankara punta probabilmente a un obiettivo ancora più importante: lo sdoganamento nei confronti dell’Europa, il riconoscimento di appartenenza a pieno titolo alla comunità dei paesi democratici del vecchio continente, senza, come dice Silvio Berlusconi, «interferenze» esterne: deve insomma essere sufficiente autodefinirsi democratici (nel caso di Berlusconi, europeisti) per avere il diritto d’essere riconosciuti come tali. Haydin Hanbayat fa parte di quelle decine di detenuti che, dopo mesi di sciopero della fame, versando in condizioni di salute estremamente critiche, sono stati scarcerati. Ora prosegue la protesta in uno degli appartamenti dove questi prigionieri vengono accolti da compagni e familiari, molti dei quali si aggiungono allo sciopero. Ciò che i detenuti rifiutano è il trasferimento dai tradizionali cameroni delle vecchie prigioni a istituti di pena con celle per uno-due prigionieri, al massimo tre. Il motivo è presto detto: per il prigioniero politico turco la massima sicurezza viene solo in un regime di massima promiscuità. E questo perché in tal modo ha maggiori possibilità di sfuggire alle vessazioni dei secondini, alle torture della polizia. La drammaticità della protesta dei detenuti sta a dimostrare quanto realmente drammatica sia la loro situazione. D’altronde, i dati resi pubblici dall’Associazione turca per i diritti umani sono illuminanti. Nel 2001 vi sono stati 124 omicidi, attribuibili agli squadroni della morte, più di 800 sono stati i casi di tortura denunciati (il leader del partito di estrema destra Mhp, che fa parte della coalizione governativa, ha ricordato nei giorni scorsi che la tortura è nelle tradizioni culturali turche e che sarebbe un’illusione pensare di debellarla con una semplice modifica legislativa!), oltre 55’000 i fermi per motivi politici, 3’224 di questi tramutati in arresti. E poi si contano a decine e centinaia i fermi e gli arresti di dirigenti politici, di sindacalisti, di giornalisti. Senza contare quanti, fra la popolazione curda, (quotidianamente massacrata nelle regioni d’origine) vengono arrestati, torturati, incarcerati per la sola ragione di vedersi riconosciuto il diritto di poter esprimersi e studiare nella lingua madre. A mo’ di conclusione, tanto per capirci: il diniego di questo diritto ai cittadini albanesi, fruttò al regime di Slobodan Milosevic la condanna internazionale, sino alla resa dei conti, che vedrà il suo epilogo al tribunale dell’Aja. (1) Nazim Hikmet, “Lettere dalla prigione, 1942-1946” (2) Il Manifesto, 10 gennaio 2001

Pubblicato il

18.01.2002 04:00
Sarah Nemo
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