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Ex Ptt, ormai due imprese private |
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Utile über alles. Lavoratori e servizi per la popolazione sono diventati per la Posta e la Swisscom vittime sacrificali da immolare all’altare della produttività dell’azienda. Dopo la scissione delle ex regie federali, le Ptt, il processo di privatizzazione rischia di fagocitare completamente una delle massime istituzioni pubbliche, la Posta simbolo di una Svizzera efficiente. Per capire quali sono gli effetti pratici di questo processo in atto basta ascoltare le voci del sindaco o del segretario comunale di Cresciano (vedasi reportage qui sotto). Un paesino del Bellinzonese che per continuare a garantire alla popolazione il prezioso servizio pubblico ha deciso di pagare di tasca propria per mantenere un’agenzia postale. O ancora quella di Luigi (vedasi articolo a lato) , un postino che esterna tutta la sua amarezza nel constatare che «la Posta fa utili da sogno grazie alle grandi ore a gratis che facciamo noi». Uno sfogo il suo, nell’assoluto anonimato, lo stesso dietro il quale si cela anche Lula, impiegata presso la Swisscom che racconta il peggioramento delle condizioni lavorative dopo la privatizzazione (vedasi intervista sotto). Due testimonianze, quest’ultime , accomunate dal timore di ritorsioni per aver osato criticare quello sfacelo che il 26 settembre con l’iniziativa “Posta per tutti” si vuole bloccare. Un freno urgente per domare quel cavallo imbizzarrito chiamato Gigante giallo che – come ricorda Werner Carobbio, presidente dell’Unione sindacale Ticino e Moesa e che ai tempi della scissione delle Ptt era deputato al Consiglio nazionale - «si è lasciato gestire a briglia sciolta come se fosse una qualsiasi impresa privata».
Posta A? 2 franchi a Cresciano
“Buongiorno, atto di nascita o invio pacco postale?”. Proprio così, a Cresciano – paese di 600 anime del Bellinzonese – da ormai inizio anno lo sportello della cancelleria comunale funge anche da agenzia postale. Due ore e mezza al giorno nelle quali si può rinnovare il passaporto e pagare la bolletta della luce. «Non abbiamo avuto alternative, la Posta ci ha messo davanti a un bivio: o la chiusura o l’agenzia postale a nostro carico. Ora al comune tocca pagare mentre la Posta fa utili», ci ha detto il sindaco Ferruccio Tognini. Storia di avveniristica amministrazione o di un paese beffato che paga due volte per un servizio pubblico che dovrebbe offrire il Gigante giallo?
Quando nella primavera dell’anno scorso la Posta aveva comunicato alle autorità di Cresciano che la filiale del Gigante giallo sarebbe stata chiusa, il Municipio e la popolazione si erano opposti. Ma non con sufficiente fermezza a quanto pare. Dal 5 gennaio di quest’anno infatti la casa comunale oltre a offrire i consueti servizi ai propri cittadini si è adoperata per diventare anche agenzia postale. «Non ce la siamo sentiti di abbandonare la popolazione, i disagi sarebbero stati troppo grandi senza un ufficio postale. L’ultimo baluardo per un paesino come il nostro», ci ha detto il sindaco. L’alternativa proposta dalla Posta era la “presa in consegna”. «Perché non ci accontentiamo visto che siamo così pochi? Un momento, la cosa non è così comoda come si può pensare. Bisogna mettere un cartellino nella buca delle lettere, il giorno dopo quando c’è la distribuzione il postino si ferma e puoi fare delle operazioni. Vero. Il problema è che non sai quando arriva, la mattina devi restare in casa ad aspettarlo. Quando passerà?», ci ha spiegato Dino Genini, segretario comunale e ora addetto anche al servizio postale. «Per fortuna che quando ero studente ho lavorato in posta, sennò non saprei davvero come avremmo potuto fare. Secondo la Posta per Nadia (l’aiuto segretaria, ndr) sarebbe stato sufficiente un solo giorno di formazione per poter svolgere le funzioni che prima offriva l’impiegato postale. Alla fine è riuscita a spuntare 3 mezze giornate. Ci hanno davvero messo addosso una fretta del diavolo». «Hanno voluto dimostrare alla sede centrale – interviene lapidario il sindaco –, a Berna, che sanno chiudere anche in Ticino». L’accordo finale, raggiunto in fretta e furia, con il Gigante giallo consiste in una partecipazione ai costi dell’agenzia postale “comunale”. La Posta versa al paese 15 mila 235 franchi all’anno «ma il costo solo per il lavoro svolto per il disbrigo delle pratiche postali arriva a 30 mila franchi». Fattura, spese escluse, che va a pesare sul bilancio del piccolo comune. «Ai 30 mila franchi dovremo aggiungere tutti i costi che abbiamo sostenuto per adattare il locale della cancelleria – dice Tognini –. Inoltre c’è il costo della polizza, 1’200 franchi all’anno per motivi di sicurezza. Poi c’è anche l’occupazione del locale. Stiamo facendo i conti in questi giorni È stato davvero un processo laborioso, ci siamo dovuti arrangiare perché la Posta ci ha solo detto “noi chiudiamo e basta” e a scatola chiusa abbiamo dovuto prendere la decisione di offrire un servizio postale».
A pochi passi dalla “casa comunale-agenzia postale” c’è lo stabile, riattato 8 anni fa, che ospitava il vecchio ufficio postale. Il contratto d’affitto, che il Gigante continua a onorare, scade nel 2015. «Lo stabile di recente costruzione e la durata del contratto non devono essere un fattore di impedimento alla trasformazione», si legge nella missiva scritta dalla Posta alle autorità di Cresciano. Il proprietario ci ha confermato che il Gigante giallo non si è finora mosso «hanno chiuso ma continuano a pagare, pensare che avevano ammodernato tutto. Un vero peccato. Vetri doppi, sportello blindato e caselle postali».
Ancora pochi passi e sul posteggio comunale si trovano le “nuove” caselle postali. «La Posta si è affrettata a costruire lontano dal vecchio ufficio altre caselle, hanno davvero voluto fare di tutto per far capire che chiudono. Ora quando piove le lettere si inzuppano, non hanno pensato nemmeno a una tettoia. Fa rabbia pensare che a 100 metri ci sono quelle al coperto costruite 8 anni fa. Non bastasse ciò, poco tempo fa ci hanno chiesto se abbiamo il posto per ospitare il carretto per la distribuzione delle lettere, non vogliono avere più nulla nel vecchio edificio. Intanto però continuano a pagare l’affitto del locale. Cose da non crederci. Siamo davvero allibiti, la Posta non ne vuol sapere più niente del servizio pubblico», dice con amarezza il giovane segretario comunale. «Certo che per me, l’orario di lavoro è aumentato, è difficile stare dietro sia ai compiti postali che a quelli municipali. Per l’utente non è cambiato molto, la gente è davvero felice di poter continuare ad avere un’agenzia postale». Il sindaco e il segretario comunale sono d’accordo, vogliono aspettare di chiudere i conti prima di vedere se la situazione finanziaria potrà essere sostenibile. «Vogliamo chiedere alla Posta di rivedere il loro contributo. I 15 mila franchi all’anno non copriranno nemmeno la metà delle prestazioni che offriamo. Facciamo il lavoro per loro e paghiamo noi. Come è possibile che fanno tutti questi utili?»
Swisscom, la grande sorella
Lula* ha una quarantina d’anni* e da circa un ventennio lavora alla Swisscom, un tempo Ptt e poi per un breve periodo Telecom Ptt. Nella sua lunga esperienza all’interno dell’azienda di cambiamenti ne ha visti, eccome. Di quello che in modo astratto viene definito processo di liberalizzazione e privatizzazione delle telecomunicazioni, Lula ha conosciuto gli effetti che si sono prodotti nella sua quotidianità lavorativa, sempre più logorante psicologicamente e fisicamente.
Quando la Swisscom è diventata una Società anonima, lei concretamente ha avvertito questo passaggio dal pubblico al privato?
Le prime avvisaglie di tale passaggio arrivarono quando ci vennero proposti – non ricordo se fosse nel ‘96 o ‘97 - dei corsi di aggiornamento dal nome emblematico “Change” (cambiamento, ndr), il cui scopo, ci venne spiegato, era quello di prepararci appunto ai cambiamenti che di lì a poco sarebbero subentrati con la trasformazione delle Telecom Ptt in Swisscom. Introdussero nuovi concetti come “lavorare in team” e ci spiegarono che al posto del capodivisione ci sarebbe stato il “team-leader”, un responsabile molto più vicino a noi. Il tutto appariva come un’innovazione positiva, a nostro favore, che veniva a scalfire i rapporti cristallizzati gerarchici di un tempo e che dava alle donne possibilità di carriera prima ridotte al minimo.
Tutti soddisfatti dunque?
La nostra “soddisfazione” non durò a lungo. Dietro quella “positività” si nascondevano delle ombre. Nel giro di qualche anno, i vertici cominciarono a parlare di esuberi e di necessità di razionalizzazione all’interno dell’azienda. Così, da un momento all’altro, ci ritrovammo un nuovo capo del personale venuto da chissà dove e destinato a rimanere da noi per circa un anno. L’impressione era quello di avere di fronte un manager asettico, una sorta di “tagliateste” volutamente estraneo alla nostra realtà, che potesse operare dei tagli di posti di lavoro senza alcuna remora (licenziare uno sconosciuto è più semplice che far “saltare” qualcuno con cui hai avuto rapporti professionali, magari per anni). Insieme all’entrata in scena di questo personaggio cominciò a far capolino nel nostro ambiente di lavoro una sottile, ma palpabile, paura. Tutto accadde troppo in fretta: prepensionamenti, spostamenti vari di personale. Da quel momento il clima non fu più lo stesso. Cercavano di tranquillizzarci dicendoci che noi non saremmo stati “toccati” ed effettivamente, finora, nel mio ufficio siamo stati risparmiati. Eppure una domanda continuamente ci ronza in testa: quando sarà il nostro turno?
Il clima di tensione è vissuto da tutti allo stesso modo?
Sicuramente sono le persone non più giovanissime a soffrirne di più, parlo di quegli impiegati che in fretta e furia hanno dovuto adattarsi alle nuove tecnologie e ad un modo di lavorare estremamente stressante, sempre con la paura di non essere all’altezza dei vertiginosi cambiamenti o di essere scavalcati dall’ultimo arrivato, giovane, efficiente e rampante. Paura che si è rafforzata ora che tutto è all’insegna dei “controlli della qualità”, un modo apparentemente innocuo di verificare il tuo lavoro.
In che cosa consistono questi controlli della qualità?
Potrei farle degli esempi. La Swisscom può effettuare registrazioni di una telefonata-tipo di un dipendente (quest’ultimo viene informato dell’operazione a suo riguardo) che serve un cliente, così come può procedere ad un calcolo della sua produttività . Vi sono infatti dei parametri (a tutt’oggi non ho ancora capito cosa siano) in base ai quali in un tot di ore bisogna “produrre” tot. Oggi non timbriamo più il cartellino, diamo il via alla nostra giornata lavorativa accendendo il Pc ma con la consapevolezza di essere “marcati a vista”.
Il Grande Fratello Swisscom vi controlla attraverso il monitor?
Intendiamoci, non è che ci viene proibita una pausa ma, nel concreto, sappiamo che ogni nostra mossa, in qualche modo è indirettamente registrata (non pigiare i tasti o non essere al telefono diventa indicazione di non attività) e questo crea non poco stress. Senza contare poi il fatto che molti di noi devono essere sempre aggiornati su migliaia di cose e continuamente. Ma questo fa parte del gioco e ormai cerchiamo di accettarlo. Il paradosso è che questo lavoro di “team”, che fa pensare ad una condivisione maggiore della propria attività con gli altri colleghi, in realtà è fonte d’isolamento sempre più forte. Tutti dobbiamo avere molte competenze ed essere ed essere in grado di risolvere qualsiasi tipo di problema ci ponga il cliente. Un tempo si cooperava ed ognuno veniva valorizzato per le sue competenze specifiche, mentre oggi siamo piccoli mondi autonomi ma “solitari” nel contesto lavorativo. A volte succede che qualcuno di noi cambi sede o lasci il lavoro senza che nessuno se ne accorga.
E lei come si sente in questo “nuovo mondo” Swisscom?
Faccio molta fatica. Questo sentirmi perennemente controllata mi fa star male. Tanto che negli ultimi anni questo malessere psicologico si è trasformato in malessere fisico. Mi ammalo più facilmente di un tempo e ho addosso una costante tensione.
Tra i lavoratori della Posta - ha dichiarato Christian Levrat, presidente del Sindacato della comunicazione (vedasi area n. 36 del 03.09.04) – le assenze per malattia sono aumentate. Anche da voi?
Sì, ho notato che anche i colleghi si ammalano più facilmente da quando sono stati introdotti questi parametri per misurare la nostra efficienza.
Lei lavora in Ticino ma cosa sa degli altri ambienti lavorativi d’oltre Gottardo?
Si sa che nei grossi centri le ristrutturazioni sono state più massicce e le pressioni per una maggiore produttività ancora più forti. E non credo sia un caso che, per esempio, in qualche Call center della Svizzera interna, il turn over tra i dipendenti sia particolarmente marcato. Lì lo stress è alle stelle e un dipendente – da quel che mi raccontano – non regge a lungo. Forse è per questo che il personale viene reclutato soprattutto fra studenti che per un periodo di tempo limitato hanno bisogno di lavorare.
Lei teme che le condizioni peggioreranno col tempo?
Al momento, nessuno dei nostri responsabili ci ha pronosticato tagli di posti di lavoro. Vi è comunque un martellamento continuo sulle strategie dell’azienda, ci dicono che se la Swisscom vuole restare sulla cresta dell’onda deve continuare nel suo processo di ristrutturazione, il che tradotto in altri termini significa possibilità di nuovi licenziamenti, di aumento delle nostre prestazioni, ecc. ecc. Io non so cosa pensare: un collega di un altro settore mi ha detto di prepararci perché il prossimo anno i tagli potrebbero toccare anche noi. Magari verremo risparmiati, magari no. Quel che è certo è che questa sensazione di estrema insicurezza rischia di diventare prima o poi la nostra fedele compagna quotidiana.
Perché, pur parlando nell’anonimato, non desidera che si specifichi sede e settore in cui lavora?
Probabilmente lo stesso timore glielo avrei manifestato anche anni fa. Quel che ora so è che esporsi per criticare l’azienda è un rischio. E in tempi così ballerini ancora di più.
*Nome ed età sono stati modificati così come sono stati omessi la località e il settore della Swisscom in cui opera la nostra interlocutrice per proteggerne l’identità.
Quando al postino metti la museruola
Anche Luigi come Lula (vedi intervista a lato) vuole restare nell’anonimato. Una paura che sembra toccare molti dipendenti delle ex regie federali. Provare per credere: andate in un ufficio del Gigante giallo e chiedete l’opinione del postino sulla prossima votazione del 26 settembre. Un attimo di silenzio, la sua memoria va subito alla missiva inviata dal direttore in persona, Ulrich Gygi, a tutti i dipendenti. Lavorano in Posta ma non possono dire la loro, gli unici a poter parlare sono gli addetti stampa o i responsabili di zona. «Non è che ho paura, solo che a mezza età è meglio non rischiare troppo, già temo che fra poco chiuderanno la filiale, se poi mi licenziano…guarda è meglio che passi più tardi», dice Luigi dietro al vetro. Alle 2 il postino spiega che lui appartiene alla vecchia generazione, quella che è partita dall’apprendistato e che ha passato una vita al servizio delle ex Ptt. «A un giovane del giorno d’oggi però non so se consiglierei di lavorare per la Posta, forse potrebbe farci l’apprendistato, insegnavano bene ai miei tempi, ma poi gli converrebbe cercare altrove». Luigi si arrabbia quando si parla dei “privilegi” del dipendente postale. «Che vantaggio si ha nello svegliarsi alle 4 di mattina per finire a mezzogiorno? Il privilegio è restare a dormire il sabato e leggersi il giornale. Una volta quando cominciavi alle 4 avevi l’indennità per le ore notturne fino alle 6, ora neanche più quello. Le cose sono cambiate, non c’è più il metodo di lavoro Ptt». Nell’atrio della vecchia filiale postale Luigi spiega che gli hanno diminuito le ore ufficiali e lo stipendio, meno 1’000 franchi al mese. Quella che non è cambiata invece è la mole di lavoro. «Pensa che secondo contratto ho 3 minuti al giorno per pulire l’ufficio e anche il piazzale delle autopostali, 3 minuti al giorno che non posso fare io se no eccedo nelle ore di lavoro. Chi si scomoda per 3 minuti al giorno? La verità è che la Posta fa utili da sogno grazie alle grandi ore a gratis che facciamo noi». Il postino invita a fare un giro dall’altra parte dello sportello «guarda, a volte mi sembra di regredire. Ora al posto della macchinetta computerizzata ho questa specie di calcolatrice per fare i conti. Mi hanno detto che ne hanno comprate parecchie a 50 franchi l’una, quindi le dobbiamo usare, non fa niente se sono molto più scomode». Luigi è sicuro che il destino delle filiali postali della sua regione è segnato, verranno tutte chiuse a suo avviso. I responsabili gli hanno già fatto capire che sotto i 150 clienti al giorno non vogliono saperne di tenere aperto, e la storia di Cresciano (vedi articolo a lato), 600 abitanti, ne è una chiara dimostrazione a suo avviso. A fianco dello sportello c’è una bacheca di vetro in bella mostra che contiene oggettini vari «come fai a vendere questa roba? Gli obiettivi di vendita sono fantasticherie di manager da quattro soldi», dice arrabbiato Luigi. Ma come? Eppure dagli ultimi sondaggi effettuati all’interno della Posta risulta che il personale è tutto sommato soddisfatto del proprio mestiere. «La verità è che i dipendenti hanno paura. L’altro giorno è arrivato il risultato del sondaggio per questa zona, pare che siamo tutti contenti. Chissà come ci sono arrivati...Garantito l’anonimato? A parole. Quando una volta ho osato dire la mia il giorno dopo è arrivato il responsabile a chiedermi spiegazioni. Quando gli ho detto come ha fatto a sapere che ero io è diventato rosso».
A Luigi non va giù nemmeno l’idea “dell’imprenditore postale” che il gigante giallo vorrebbe promuovere «ci sono già state offerte in questo senso. Ti danno un tot all’anno per zona e magari la responsabilità di vari dipendenti. Una specie di catena di Sant’Antonio. Loro se ne lavano le mani e l’imprenditore improvvisato farà pressione sui suoi dipendenti per trarre profitto dalla cifra fissa. Se ci perdi ci rimetti di tasca tua. Bella invenzione. Già ora ci sono pressioni da parte dei responsabili che guadagnano di più a seconda della cifra d’affari. Ma se la Posta non vuole più fare il suo mestiere perché non lo dice apertamente?»
Consiglio federale, padrone assente
Werner Carobbio lei era deputato al Consiglio nazionale quando le Camere accettarono nel 1997 la proposta del Consiglio federale di scindere le Ptt. Come mai gli ambienti sindacali e la sinistra non reagirono allora?
È uno degli aspetti più discutibili a mio avviso. In principio infatti sembrava che la divisione fosse unicamente di stampo contabile, un modo per poter distinguere fra posta e telecomunicazioni. Allora si credeva che fosse un compromesso accettabile per lasciar crescere le Telecom Ptt. Tanto che alle Camere si discusse della creazione di una holding che unisse le due imprese sotto un unico cappello, Swisscom e la Posta dovevano restare unite. Nel 1997 non era tabù pensare che gli utili di una delle due potesse compensare le perdite dell’altra. La sinistra e i sindacati si erano illusi che i cambiamenti in atto nel settore della telefonia giustificassero un mutamento. Inoltre prevalse la convinzione che in ogni caso l’impresa sarebbe rimasta in mano pubblica e che attraverso un ruolo attivo della Confederazione non ci sarebbero stati problemi.
E non è stato così?
Direi proprio di no. La scissione delle Ptt, presentata come un ammodernamento contabile, era in realtà un passo verso la privatizzazione. Ci si era illusi che il padrone dell’impresa, cioè la Confederazione, avrebbe detto la sua in caso di problemi.
Dove sbaglia il Consiglio federale nella gestione delle ex regie Ptt?
Il Consiglio federale ha sin qui rinunciato sistematicamente a giocare il ruolo di azionista principale che gli compete. Gli azionisti delle società private fanno valere le loro ragioni, perché non può farlo allora anche il Consiglio federale? Non vedo di buon occhio l’impostazione dell’attuale direttore della posta, Ulrich Gygi, ma le vere colpe sono del padrone, cioè della Confederazione che non vuole dare indicazioni precise. “Qui non potete chiudere” non è mai stato detto. Gygi in fondo ha solo il mandato di non cadere nelle cifre rosse. Il Consiglio federale non ha mai detto nelle sue direttive, sottolineo quadriennali, che la posta deve garantire il servizio pubblico, si parla unicamente degli utili. Prima il profitto e poi il servizio pubblico. Questo è inammissibile. Quando al Nazionale insistevo affinchè venissero dati degli obiettivi più precisi alla posta mi si è sempre risposto che non si può interferire nel funzionamento di un’impresa. Ci si è dimenticati che le ex regie federali sono di proprietà della Confederazione e che è lei che deve decidere. Non si tratta di interferire nella gestione quotidiana ma si potrebbe dire di no a volte. Un padrone deve poterlo fare. La verità è che si è lasciata una gestione a briglia sciolte come se fossero una qualsiasi impresa privata. Inoltre non capisco perché se si finanzia l’esercito non si possa dare delle garanzie anche alla posta che, ricordo, ultimamente fa utili da invidia. Utili ottenuti sulle spalle dei lavoratori e delle regioni periferiche.
Lontani dagli occhi e dal cuore
Pensare male non è “carino” ma non ci si sbaglia quasi mai. La realtà è che le ex regie federali, Posta e Swisscom, sono di fatto già delle imprese private. E non è un sacrilegio dirlo. Restano in mani pubbliche ma agiscono con criteri manageriali volti a raggiungere l’obiettivo, non quello imposto al personale di vendere oggettini di dubbio gusto ma quello di rendere ad ogni costo. Guadagnare oggi per essere concorrenziali domani. Una litania che il direttore del gigante giallo Ulrich Gygi non si stanca di ripetere. Intanto a pagare anticipatamente le spese dell’ipotetico grigio futuro sono i dipendenti e le regioni periferiche. Persone misurate e controllate che non possono neppure parlare apertamente delle loro condizioni di lavoro. Voci distorte, immagini sfuocate o nomi di fantasia come quelli in questa pagina. Nulla di più se non si vuole rischiare di essere licenziati in sordina. Che padrone cattivo. Gygi? Swisscom? No, non sono loro che dovrebbero avere la parola finale. Il padrone resta pur sempre la Confederazione, padrona assente e sorniona. “Non vogliamo interferire nella gestione d’impresa”, fa intendere il Consiglio federale.
La verità invece è che sotto la gestione di mandato pubblico si cela una privatizzazione ben mascherata. Votare sì all’iniziativa “Posta per tutti” il prossimo 26 settembre significherà chiedere al Consiglio federale di tornare a fare ciò che gli compete e che fino ad ora ha abilmente evitato: il padrone di azienda. |
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