Stiamo vivendo in un clima che per certi versi sembra quello di una sorta di guerra mondiale. Tuttavia in campo non vi sono eserciti che si combattono, ma un micidiale microorganismo scoperto nel dicembre scorso in Cina, denominato coronavirus. Differentemente dalla guerra tra paesi non vi sono chiusure di frontiere e combattimenti, ma misure di contenimento della diffusione all’interno dei singoli paesi – che possono essere drastiche: mobilità ridotta, chiusura di fabbriche come quelle applicate in Cina. Misure che a medio termine fanno saltare il complesso funzionamento della fabbrica mondo. L’esempio cinese è significativo: Wuhan epicentro dell’epidemia è una metropoli, capitale della regione Hubei, e il nodo ferroviario più importante della Cina; è la Detroit cinese dell’automobile, la valle dell’ottica (¼ dell fibre ottiche mondiali) e uno dei maggiori poli dell’elettronica cinese che alimenta anche il just in time dei paesi occidentali. Un rallentamento o interruzione delle forniture si ripercuote direttamente sull’attività di aziende di altri paesi, tra cui il nostro. O possono, addirittura generare penuria di materie prime e/o beni di prima necessità come prodotti farmaceutici di uso corrente – vedi Dafalgan – provenienti dalla Cina. L’importanza economica della tigre asiatica nell’economia mondiale è tale che una flessione del suo Pil si ripercuote su quello dei paesi avanzati. Non a caso l’Ocse parla di «rischio senza precedenti» per l’economia, che potrebbe dimezzare la sua crescita. Forse più che l’emergenza climatica, la diffusione del coronavirus ci fa meglio comprendere... il significato della globalizzazione e le sue conseguenze. La situazione è critica, sta diventando grave, occorre agire per far ripartire il sistema economico, già sottotono che ora rischia di imballarsi. Coronavirus getta ulteriore sabbia negli ingranaggi di un motore che già faticava a causa di una debole domanda solvibile (salari stagnanti). Se non c’è produzione, non c’è distribuzione di salari, senza salari cade la domanda e lo stato perde entrate (imposte). Un pericoloso circolo vizioso che può generare situazioni di alto disagio e tensioni sociali. Oltretutto fronteggiare l’epidemia richiede risorse supplementari per la sanità (addetti, strutture, medicamenti), per il sistema economico (compensare le ore di lavoro perse, mancanza guadagno piccoli imprenditori). Un serio grattacapo. L’impressione che se ne ricava è che politica, istituzioni internazionali, associazioni imprenditoriali siano frastornate, e non sappiano che pesci pigliare. Nella crisi del 2008 che generò fenomeni economici simili se ne uscì con l’intervento degli stati che sopperirono alle difficoltà delle principali banche accollandosi i loro debiti – il noto too big to fail. Come nel gioco della “pepa tencia”, gli stati si ritrovarono sovraccaricati, con un forte aumento del debito pubblico, che hanno onerato “facendo quadrare i bilanci” con misure di austerità che hanno indebolito i sistemi sociali. Le vecchie ricette – “tagli d‘interesse da parte di Fed e/o iniezioni di liquidità nel sistema bancario della Bce attraverso il quantitative easing o il rifinanziamento a tassi agevolati degli istituti di credito – spiega Luigi Pandolfi per il quale – è ridicolo che in una situazione così eccezionale si insista ancora e unicamente sul «meccanismo di trasmissione della politica monetaria all’economia reale». Una cosa è certa: l’iniezione di liquidità è necessaria per rilanciare il motore economico, producendo tuttavia beni e servizi utili alle persone e in sintonia con l’ambiente. Appare scontato che spetti allo stato sobbarcarsi l’onere dell’urgenza con investimenti pubblici, come d’altronde anche taluni ambienti dell’economia sostengono. Tuttavia per evitare lo scaricabarile sui cittadini e i ceti meno abbienti, sorge una questione fondamentale: in che modo e a quali condizioni?
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