Martedì mattina ha dilagato il panico nelle mailing lists e nei siti internet: la sera prima, la trattativa tra il comitato organizzatore della manifestazione per la pace di sabato 15 febbraio e la controparte, ferrovie e ministero degli interni, si sono interrotte. Gli uni chiedevano treni speciali per 50 mila persone, al prezzo, uguale per tutti, di 20 euro andata e ritorno (lo stesso che le ferrovie chiesero per la manifestazione di Firenze, ai primi di novembre); gli altri offrivano un massimo di 25 mila posti al prezzo di 24 euro. Da molti giorni, a Torino come ad Ancona e a Milano, associazioni di ogni tipo avevano cominciato a raccogliere le prenotazioni, e i soldi del biglietto, per i treni speciali diretti a Roma. E adesso? Il comitato organizzatore, che si riunisce ogni giorno nella storica sede nazionale della Cgil, in Corso d’Italia, a Roma, troverà certamente una soluzione. Come ha fatto per l’enorme quantità di problemi che implica un raduno cui si prevede parteciperanno almeno un milione di persone. Del resto, il comitato, che si chiama “Fermiamo la guerra”, è un problema in se stesso. Non è, come si potrebbe immaginare, una pattuglia di funzionari e tecnici esperti della materia (l’organizzazione, nella tradizione di sinistra, è una scienza). Al contrario, è un gruppo mutevole e aperto, cui partecipano sì sindacalisti o rappresentanti di partiti, ma anche gente dei centri sociali, delle organizzazioni cattoliche, dei media indipendenti, in una apparente Babele inconcludente. Con una ulteriore difficoltà, se ve ne fosse bisogno: che all’eterogeneo coordinamento che aveva miracolosamente organizzato il Forum sociale europeo di Firenze (60 mila partecipanti, in perfetto ordine), e che aveva inizialmente proposto che in Italia e in Europa il 15 febbraio si tenessero simultaneamente marce contro la guerra in Iraq, si sono aggiunti, all’inizio diffidenti e poi via via più a loro agio, soggetti assai differenti. Si potrebbe ad esempio dire, per battuta, e il segretario della Cgil, Epifani, ne sorride volentieri, che le grandi confederazioni sindacali, duramente divise da mesi, hanno ritrovato l’unità su questa manifestazione: almeno, per i due terzi. Ha aderito (“con una propria piattaforma”, come ormai usa dire) anche la Cisl, che spiegherà le sue bandiere bianco-verdi. E l’Arci ha ritrovato modo di lavorare insieme alle Acli, l’associazione cattolica che, fin da Genova (G8), faceva la fronda al movimento che in quella occasione era nato. E i Ds e la Margherita, mentre litigano tra sé e sé in parlamento sulla domanda se l’opposizione alla guerra debba essere “senza se e senza ma”, la formula coniata dal movimento dei forum sociali all’epoca dell’Aghanistan e che la Cgil ha ripreso nella sua promozione del corteo del 15, ridiventeranno l’Ulivo sia a Roma il 15, che a Bologna il giorno prima: sebbene i dubbi su quel che faranno nel caso in cui l’Onu approvi una seconda risoluzione, e insomma autorizzi più o meno la guerra, restano pesanti. L’impatto dell’onda pacifista, sul sistema politico, è enorme. Anche grazie al Vaticano. Grande impressione ha suscitato la copertina di Famiglia Cristiana (un milione di copie) che proponeva un referendum ai suoi lettori: “Con il Papa o con Bush?”. Così che nella Margherita, ma anche nel centro-destra, i politici di osservanza cristiana stanno recalcitrando, e il fedelissimo (a Bush) Berlusconi ha incontrato finalmente un ostacolo che potrebbe non riuscire a superare. E a cui reagisce in modo debole e un po’ meschino: ad esempio facendo ostruzione sui treni speciali; facendo decidere alla Rai, il cui consiglio d’amministrazione è ridotto a due soli consiglieri di destra, che non trasmetterà la diretta della manifestazione (la manifestazione si vedrà su La7, molto felice per l’occasione); per bocca del ministro degli interni, Pisanu, minacciando mano pesante per ogni forma di protesta che non consista nel fare una manifestazione. Inoltre, per una volta, il macinare della politica italiana subisce colpi e contraccolpi che vengono dall’“estero”. Il mondo è davvero globalizzato: purtroppo, a causa della guerra. Il più acuto columnist politico italiano, Stefano Folli del Corriere della Sera, nota come il centrosinistra si stia affannosamente allineando a Francia e Germania (con l’imbarazzo di dover spiegare perché hanno fino a qui sostenuto ciecamente la Nato), mentre il centrodestra, pur con i mal di pancia dei centristi cattolici, è lo schieramento politico occidentale più obbediente agli Stati uniti, superato forse solo da Tony Blair. Ma l’“internazionalizzazione” è nelle premesse della giornata del 15 febbraio, che, inizialmente europea, al Forum sociale mondiale di Porto Alegre, in gennaio, è divenuta globale, e cortei si faranno a New York (anche se il sindaco nega l’autorizzazione), a Tokyo e a Buenos Aires. I sindacati europei discutono, faticosamente, della possibilità di uno sciopero generale continentale per il giorno in cui la guerra dovesse effettivamente iniziare. Una proposta che ha fatto la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, ai suoi consimili di tutta Europa. E anche la Cgil, molto discretamente, si muove in questo senso, e a quel che se ne sa d’accordo sarebbero le confederazioni tedesca, greca e spagnola; contro, sembra, le Trade Unions inglesi (il governo è pur sempre laburista); mentre la Ces, la Confederazione europea dei sindacati, tende a rinviare la questione al suo congresso, nel prossimo maggio, sperando probabilmente che, per allora, il problema si sarà risolto da sé. In ogni modo, manifestazioni che si preannunciano gigantesche si stanno organizando a Parigi e a Berlino, a Budapest e a Bruxelles, a Madrid e a Istanbul. A Londra, dove qualche mese fa scesero in piazza in 500 mila, gli organizzatori hanno ottenuto il tradizionale Hyde Park solo su molte insistenze. Senza voler esagerare, bisogna prender atto che una giornata di protesta globale, che coinvolge 52 paesi, non si era mai verificata. E l’attesa cresce. Tutti sono convinti che non un milione, ma un milione e mezzo, due milioni saranno a Roma quel giorno. Del resto, si sono già vendute un milione di quelle bandiere della pace, con i colori dell’arcobaleno, che sventolano da scuole, municipi, parrocchie e condomini in tutto il paese, e a Milano è anche capitato che carabinieri in borghese chiedessero ai portieri degli stabili i nomi di chi le esponeva. Tutto inutile. Se perfino il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ha scritto domenica sul quotidiano italiano più diffuso, quello che pubblica gli strillacci di Oriana Fallaci, un editoriale sulle ragioni per cui alla guerra bisogna dire no, qualcosa di profondo si è mosso.

Pubblicato il 

14.02.03

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