“Stephan Schmidheiny è innocente e va assolto”, sostengono i suoi legali. “No, Stephan Schmidheiny era ben consapevole della letalità dell’amianto e va riconosciuto colpevole di omicidio intenzionale e condannato all’ergastolo”, ribatte la pubblica accusa. Sono le due tesi contrapposte che da domani tornano al centro del confronto dentro un’aula penale del Tribunale di Torino, dove prende avvio il processo di secondo grado del filone più importante dell’Eternit bis. Quello relativo ai morti d’amianto causati dalla fabbrica di Casale Monferrato, per i quali nel giugno 2023 è stato condannato dalla Corte d’Assise di Novara a 12 anni di reclusione per omicidio colposo plurimo aggravato. Un verdetto impugnato sia dall’accusa sia dalla difesa. Si torna dunque a Torino, sede della competente Corte d’Assise d’Appello ma anche luogo simbolo di questa vicenda giudiziaria che vede al centro l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny (77 anni compiuti lo scorso 29 ottobre) e il suo operato alla testa delle fabbriche italiane dell’Eternit tra la metà degli anni Settanta e il 1986. È infatti qui che l’inchiesta, avviata vent’anni fa dal team di magistrati guidati dall’ex procuratore Raffaele Guariniello, affonda le sue radici. Ed è qui che si è celebrato il primo storico maxiprocesso Eternit, che portò a una condanna di Schmidheiny (16 anni in prima istanza e 18 in Appello) per disastro ambientale colposo, poi però annullata per intervenuta prescrizione del reato da parte della Cassazione nel 2014. Ed è qui, infine, che la Procura ha in seguito deciso di procedere con l’imputazione di omicidio volontario in riferimento a singoli casi di morti per mesotelioma (il tipico cancro provocato dall’amianto che colpisce la pleura e più raramente il peritoneo). Poi però, per decisione del giudice dell’udienza preliminare, il procedimento venne spacchettato in quattro filoni (si veda il riquadro sotto): per quello più corposo, relativo a 392 morti, ex lavoratori e semplici cittadini, causati dall’Eternit di Casale Monferrato, il processo si è celebrato per competenza territoriale davanti alla Corte d’Assise di Novara. Corte che il 7 giugno 2023 ha riconosciuto la colpevolezza di Schmidheiny per le morti legate all’attività industriale della sua fabbrica, ma riqualificando il reato da omicidio intenzionale per cui era stato incriminato dai pubblici ministeri nel più lieve “omicidio colposo aggravato” e infliggendogli una pena di 12 anni di reclusione. Una decisione che ha fatto automaticamente scattare la prescrizione per 199 casi su 392 e che ora, come detto, passa all’esame della Corte d’Appello di Torino. L’accusa: ha privilegiato il profitto rispetto alla salute Qui i Pubblici Ministeri Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare chiederanno la conferma dell’impianto accusatorio, facendo valere “la contraddittorietà” e la “manifesta illogicità” di alcuni passaggi delle motivazioni della sentenza. La contestazione principale riguarda la riqualificazione giuridica del reato da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio colposo aggravato. Una “macroscopica contraddizione” con “l’attenta e dettagliata ricostruzione storica dei fatti”, scrivono Compare e Colace contestando in particolare l’interpretazione che esclude il dolo eventuale, cioè che Schmidheiny, pur a conoscenza dei rischi per la salute dovuti all’esposizione alle polveri di amianto derivanti dal ciclo produttivo dello stabilimento Eternit, abbia scientemente privilegiato le finalità di profitto e le esigenze di produzione rispetto alla salute di lavoratori e cittadini, decidendo di proseguire l’attività, pur nella consapevolezza che ciò avrebbe causato, con certezza o alto grado di probabilità, l’insorgenza di gravi e letali patologie quali l’asbestosi, tumori polmonari e mesotelioma. Un’interpretazione che nella sentenza viene definita “non verosimile, non ragionevole e non aderente ai fatti così come emersi dall’istruttoria dibattimentale”. “Inverosimile e non ragionevole nella presente vicenda è stata invece la condotta dell’imputato”, replicano i Pubblici Ministeri motivando l’impugnazione. Compare e Colace ribadiscono che “i fatti e le circostanze” rendevano “più che chiaro e del tutto prevedibile al prevenuto gli effetti disastrosi della politica aziendale perseguita a fine di profitto a costo di reiterare nel tempo una lunghissima serie di decessi palesemente correlati all’amianto”. “E ciò ̶ si legge ancora nel ricorso ̶ non certo per mera trascuratezza ma esclusivamente per un’accettazione consapevole del rischio, … non a caso abilmente manipolata attraverso un’opera di disinformazione circa le conseguenze nefaste dell’amianto”. I due magistrati parlano di una “volontà pervicace e reiterata che sorreggeva in toto l’intento spregiudicato di Schmidheiny di proseguire a tutti i costi nella sua attività imprenditoriale letale”. “Non vi è alcun dubbio”, concludono dunque, che il miliardario svizzero, “si fosse certamente rappresentato l’elevatissima probabilità di cagionare le gravissime conseguenze delle sue azioni”. Quello che emerge dagli atti, sottolineano, non è “affatto il comportamento di un imprenditore negligente bensì di un imprenditore che ha consapevolmente, pervicacemente, cinicamente sacrificato sull’altare del profitto la vita di lavoratori e cittadini residenti e quindi agito con l’elemento soggettivo del dolo eventuale”, sostengono i Pubblici Ministeri. Di qui la richiesta ai giudici d’appello di “dichiarare Schmidheiny Stephan Ernst colpevole di omicidio volontario con dolo eventuale e condannarlo alla pena che era stata richiesta nel dibattimento di primo grado” (cioè l’ergastolo) “o, comunque, alla pena ritenuta di giustizia”. La difesa: è colpa di chi è venuto prima Dal canto loro, i legali dell’imputato Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva, nel motivare la loro impugnazione, negano innanzitutto che le morti per mesotelioma siano riconducibili a una condotta scorretta del loro assistito e chiedono che sia assolto “da tutti i reati ascritti con formula ampia” e, “in subordine”, qualora fosse confermata la decisione di condanna, una “rideterminazione della pena nel minimo”. La difesa di Schmidheiny insiste in particolare con la tesi che le conoscenze scientifiche dell’epoca facevano ritenere possibile una lavorazione dell’amianto in sicurezza. “Oggi sappiamo che non c’è limite di polverosità che tenga quando si parla di amianto”, ma durante il decennio di gestione da parte di Schmidheiny, se pure si fosse contenuta la dispersione di polvere entro i limiti, “non può affatto escludersi che i decessi si sarebbero comunque verificati”, scrivono Di Amato e Alleva, avanzando anche dubbi sulle dichiarazioni dei molti testimoni che hanno per esempio raccontato della frantumazione degli scarti a cielo aperto nel mezzo di un popoloso quartiere di Casale e del polverone continuo che si sollevava: “Il decorso del tempo è idoneo ad alterare significativamente i ricordi rendendoli inattendibili”, scrivono. Un altro pilastro della strategia difensiva consiste nell’attribuire la colpa per l’inquinamento da amianto dell’intero territorio di Casale agli “usi impropri” che ne sono stati fatti “nei 70 anni che hanno preceduto l’assunzione di responsabilità della Eternit da parte di Schmidheiny”. Schmidheiny che, sostengono, sarebbe stato “individuato come capro espiatorio per l’attività produttiva che ha preceduto il suo arrivo e che ha prodotto conseguenze nefaste”. Infine, alla Corte di Assise di Novara si rimprovera di avere “completamente omesso di considerare il concorso colposo degli enti territoriali”, in particolare dello Stato italiano che l’amianto l’ha bandito solo nel 1992, ricordano i legali dell’imputato, che da domani siederà davanti ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino. Siederà per modo di dire visto che, come è sempre stato in tutti processi dal 2009 a oggi, Stephan Schmidheiny sarà il grande assente. |