Aumentano i dividendi, in tutto il mondo, a ritmo serrato. Ce lo dice l’istituzione che si occupa solo di questo e fa stato (Henderson). È da due trimestri che aumentano di quasi il 13 per cento. Nell’ultimo trimestre hanno ancora arricchito di 497 miliardi di dollari gli azionisti. Si rileva come in dodici paesi, tra cui la Svizzera, dove Nestlé figura al primo posto tra le dieci imprese più generose in dividendi, si sono raggiunti livelli da primato. Si constata che «l’aumento della redditività delle società spinge verso l’alto il pagamento dei dividendi in tutte le regioni». Nel secondo trimestre la vera impennata l’hanno avuta le imprese europee, con un balzo del 18,7 per cento rispetto al periodo precedente, «dimostrando una netta ripresa dei loro margini e degli utili, in particolar modo in paesi come la Germania, la Svizzera, l’Olanda, il Belgio e la Francia, dove si sono registrati dividendi da primato». Può essere noiosa questa litania di cifre, ma serve per indicarci tre cose: l’economia è tornata a girare; la redditività creata privilegia sempre una parte; non si possono ignorare le fragilità che ci sono anche in questi dividendi da primato. Se c’è salute finanziaria per le grandi imprese (in sostanza, per le 1200 più grosse capitalizzazioni borsistiche mondiali), vuol dire che c’è dinamismo nell’economia. Se il vento gonfia le vele, si può andare più in fretta e più lontano. Ci si assicura che continuerà (benché sulle previsioni siamo diventati più guardinghi). Il presidente di una grande repubblica, di destra, ammettendo con la crisi un palese squilibrio, aveva fatto tempo fa un discorso ideologico-programmatico sui “tre terzi” che aveva colpito. Doveva portare, con simmetria matematica, alla giustizia economica e sociale. Diceva che il plus-valore che una società crea va diviso in tre parti uguali: un terzo per l’investimento, affinché l’economia cresca; un terzo per i dividendi, in modo che chi ci mette i capitali (gli azionisti) sia incentivato a farlo e retribuito; un terzo per i salari, per chi ci mette il lavoro e soprattutto consuma. C’è già un piccolo verme in questo discorso egualitario in quanto gli azionisti ci guadagnano due volte, in reddito (dividendi) e in patrimonio (l’investimento autofinanziato che valorizza l’apparato produttivo dell’impresa arricchisce chi ne è proprietario, ossia gli azionisti). Va però riconosciuto che si osava perlomeno porsi il problema della diseguaglianza o della ripartizione della ricchezza creata. In altre parole: si dava troppo agli azionisti, troppo poco agli investimenti, poco o niente ai salariati. Critica che tiene ancora tutta, considerata appunto la nuova esplosione dei dividendi. C’è chi si è dato la briga (Oxfam) di dimostrarlo nero su bianco, facendo qualche calcolo (scientifico) su un importante gruppo delle maggiori imprese (una quarantina). Risulta che di quanto guadagnano, della loro redditività, il 67,4 per cento va in dividendi, il 27,3 per cento in investimenti, il 5,3 per cento in miglioramenti salariali. Una ripartizione che si ritiene “sistematica”, generalizzabile. La fragilità sta proprio qui: i proventi dei dividendi diventano speculativi, usati per ottenerne di più; gli investimenti risultano insufficienti per tenere il passo; i salari sono penalizzati, mettendo in forse i consumi (per chi produci?) e il vivere sociale (e così “populizzi”). Dovrebbe tener presente tutto questo chi continua a sostenere che bisogna favorire o attirare le imprese defiscalizzandone gli utili e non imponendo i dividendi. Senza mai chiedersi o dimostrare a che cosa effettivamente serva; chi, in fin dei conti, si favorisce, chi si mortifica e penalizza; quale subbuglio sociale si crea. Quale economia si stia ripetendo, con Trump alla finestra.
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