Il 14 giugno 1991, dieci anni dopo che la parità dei diritti tra donne e uomini era stata sancita nella Costituzione federale, mezzo milione di donne scesero in strada nell’intera Svizzera. Tutto ebbe inizio con il movimento di protesta delle lavoratrici dell’orologeria della Vallée de Joux, guidate dalla sindacalista Christiane Brunner, contro la disparità salariale nel loro settore, e si allargò a tutte le donne che, al motto «Se le donne vogliono, tutto si ferma», protestarono contro le incessanti disuguaglianze in tutti gli ambiti della società. Documenti e racconti di quella giornata testimoniano la ricchezza di idee con cui le donne fecero sentire le loro rivendicazioni. Cerchiamo qui di renderne una breve istantanea in vista del prossimo 14 giugno. Era il 14 giugno del 1981 quando il popolo svizzero ha accettato di iscrivere nella Costituzione federale il principio della parità fra uomo e donna, un principio di parità nella famiglia, nell’istruzione, nel lavoro e nella retribuzione. Nel 1991, dieci anni dopo, non si era ancora arrivati a tradurre il principio in Legge e le donne continuavano ad essere discriminate per il semplice fatto di essere donne. La situazione nel 1991 La disparità più evidente era quella salariale con circa il 30 per cento di salario in meno in media per le donne. In Ticino, dove moltissime lavoratrici ricevevano meno di 2.000 franchi al mese, questa differenza era addirittura del 48,5 per cento, quasi la metà. Senza contare i problemi legati alla previdenza sociale per coloro che non esercitavano un’attività lucrativa o l’avevano interrotta per un certo periodo. Oggi le cose vanno un pochino meglio, ma non troppo. A quasi trent’anni da quello sciopero, siamo qui nuovamente a rivendicare esattamente la stessa cosa: in tutti questi anni abbiamo migliorato solo di dieci punti percentuali la media svizzera e siamo al 20 per cento di salario in meno per le donne, che sono ancora più a rischio di povertà rispetto agli uomini. La gravidanza e la maternità rappresentavano un altro motivo di discriminazione nel 1991: la Legge vietava già il licenziamento durante tutta la gravidanza, ma molte donne venivano comunque messe alla porta dal datore di lavoro con motivazioni che a volte rasentavano il ridicolo (ad esempio una commessa di un negozio d’abbigliamento si è sentita dire che il pancione lì era fuori luogo e avrebbe potuto mettere in imbarazzo i clienti). Inoltre, le donne che si opponevano sporgendo denuncia ottenevano solo un risarcimento, non la riassunzione. Nel 1991 non esisteva ancora un’assicurazione maternità, che è stata una delle conquiste dello sciopero, e le infrastrutture necessarie alla conciliazione tra lavoro e vita familiare erano carenti. E anche in questo ambito, seppure un miglioramento ci sia stato, fra le rivendicazioni di questo secondo sciopero delle donne ci sono ancora una migliore protezione dal licenziamento in caso di maternità e delle condizioni migliori per conciliare vita professionale e familiare. Le donne che per scelta o necessità si ritrovavano nel mondo del lavoro, erano poi confrontate alla precarietà degli impieghi offerti loro, come ancora avviene oggi in molti settori con una forte percentuale di manodopera femminile. Oltre che dal precariato, la carriera delle donne era anche caratterizzata da una grande disparità di accesso ai posti di responsabilità, dato che ne occupavano complessivamente solo il 3,5 per cento, che in cifre assolute si traduceva in 652 posti assegnati a donne contro 17.704 occupati da uomini. Pure in questo ambito, se alcuni passi avanti sono certamente stati fatti, la strada è ancora lunga e tortuosa per arrivare ad una vera parità d’accesso ai posti di responsabilità. Tutte queste discriminazioni erano e sono condite da violenza di genere e molestie sessuali nei confronti delle donne che, allora come oggi, faticano più degli uomini a essere viste come persone e non come corpi, a non vedersi giudicate in base a quanto siano piacenti o a come si vestono, ma per le loro competenze. Uno degli obiettivi dello sciopero del 1991 era rendere visibili queste discriminazioni, sensibilizzare le persone sulle tematiche di genere e discutere sui modi per porvi rimedio. In pochi però, fino alla data del 14 giugno, credevano che questo sarebbe veramente successo. Un successo inatteso Nel 1991 come oggi, non mancarono i tentativi d’intimidazione per dissuadere le donne dal partecipare allo sciopero: dalla minaccia di ritorsioni da parte dell’Associazione padronale svizzera dell’industria metalmeccanica che riteneva messa a rischio la pace del lavoro, ad alcuni datori che dichiararono che avrebbero licenziato con effetto immediato tutte le dipendenti che avrebbero partecipato allo sciopero, all’allora presidente del Consiglio degli Stati Max Affolter che raccomandò alle donne di non parteciparvi per «non compromettere la benevolenza degli uomini nei confronti delle loro aspirazioni». Christiane Brunner, allora sindacalista dell’Flmo e tra le principali promotrici dello sciopero racconta in un’intervista del 2018 alla rivista specializzata “Questioni femminili”, della Commissione federale per le questioni femminili, il peso della responsabilità che incombeva sulle sue spalle alla vigilia dello sciopero: «I delegati sindacali mi dissero che in caso di fallimento dello sciopero sarei stata la sola a portarne la responsabilità, a ciò si aggiungevano tutte le minacce da parte padronale», spiega. Brunner cercò di negoziare con i datori di lavoro nell’industria: «Ho telefonato a Nicolas G. Hayek, del Gruppo Swatch, che aveva fatto mettere dei cartelloni minacciando licenziamenti, e gli ho spiegato le ragioni dello sciopero, sottolineando che non era contro la sua impresa. Lui fece togliere i cartelloni e il 14 giugno i capisquadra distribuirono delle rose alle operaie», racconta. Ma certamente le incognite restavano tante e nessuno poteva prevedere come avrebbero reagito i datori di lavoro il giorno dello sciopero e nemmeno di che portata sarebbe stata l’adesione. Molte donne raccontano che in generale, almeno inizialmente, l’organizzazione dello sciopero non fu presa seriamente, ma vista piuttosto come una cosa approssimata e sentimentale. La stampa non vi diede grande spazio e trattava le organizzatrici come bambine capricciose che l’avevano pensata un po’ grossa. Certamente nessuno (o pochi) si aspettava un successo come quello che invece rappresentò il 14 giugno del 1991, quando mezzo milione di donne, nonostante le minacce e le derisioni, aderì allo sciopero. Uno sciopero che ebbe molte forme e nel quale le donne riuscirono a trasformare la rabbia in energia, inventando nuovi modi di espressione e di ascolto, uscendo dal silenzio e dalla solitudine. Lo sciopero del 14 giugno 1991 fu una festa. La moltitudine delle forme di partecipazione è stata una delle chiavi di quel successo, permettendo ad ognuna di trovare la sua forma di adesione: c’è chi prese una pausa pranzo più lunga, chi si riunì per un caffè, altre organizzarono dibattiti sul luogo di lavoro o partirono prima per il weekend. Ci sono state azioni di strada e manifestazioni spontanee, insegnanti che hanno parlato in classe degli stereotipi e dei ruoli attribuiti alle donne e agli uomini. Ovunque in Svizzera succedeva qualcosa e le donne diedero prova di grande creatività ed entusiasmo. Le conquiste dello sciopero Gli effetti di questa grande mobilitazione non si fecero vedere nell’immediato, come sempre le donne dovettero dare prova di pazienza, ma certamente qualcosa si era mosso e non si poteva più far finta di nulla. È allo sciopero del 1991 che si deve in gran parte, ad esempio, l’elezione di Ruth Dreifuss al Consiglio federale nel 1993, ma anche l’entrata in vigore della legge sulla parità dei sessi nel 1996 e l’assicurazione maternità che dal 2004 spetta a qualsiasi donna che lavori. Ci sono poi stati degli effetti meno eclatanti, come una maggiore sensibilità sulle questioni di genere e, nell’immediato, si sono registrate molte più denunce di molestie sul posto di lavoro o di disparità salariale. Lo sciopero ha senza dubbio dato speranza e coraggio alle donne in Svizzera. |