Una sberla dopo l'altra: prima le elezioni amministrative, con la dolorosa perdita di Milano; poi i referendum, che hanno liberato l'acqua, l'energia e la giustizia dal suo giogo. Berlusconi non è ancora finito, ma è certamente già sfinito.
Chiedete alle migliaia di giovani ricercatori italiani esiliati e dispersi nelle città d'Europa come si sentono, dopo la doppia vittoria politica che ha liberato prima le più importanti città del Belpaese dal giogo sgangherato del populismo berlusconiano e dall'egoismo sedicente padano di Alberto da Giussano, quindi i beni comuni – l'acqua, l'energia, la giustizia – dalla dittatura del mercato e del profitto privato. Quei giovani esuli vi risponderanno che finalmente possono guardare a testa alta i loro colleghi europei senza più temere di essere sfottuti o compatiti per quel peccato originale che, con brevi quanto inefficaci intervalli di tempo liberato, si trascinano addosso da 17 anni. Berlusconi è sfinito, tendenzialmente tradito. Non è ancora finito ma il paese reale, e non solo qualche avanguardia, ha cominciato a rialzare la testa. Nella penisola e nelle isole maggiori, come si dice nelle previsioni del tempo, sta soffiando un vento che potrebbe liberarci dalla bonaccia che ci ha oscurati lungo una linea d'ombra che sembrava infinita. L'acqua è di tutti e non è merce vendibile, il nucleare è morte, autoritarismo e militarizzazione e non lo vogliamo, la giustizia o è uguale per tutti o non è, come i diritti che se non sono universali si trasformano in privilegi. I risultati dei 4 referendum – due erano sull'acqua, uno sul nucleare e uno per la cancellazione del legittimo impedimento che garantiva l'impunità al presidente del consiglio e ai ministri – sanciscono la prima vittoria, non solo italiana ma di rilevanza europea, contro il liberismo. Non è vero che questo esito straordinario realizzato grazie al voto di 27 milioni di persone sia stato spinto dalla sindrome giapponese (il terrore per la "bomba" nucleare), che pure ha contribuito a spingere verso le urne italiani e italiane spogliati di ogni scelta, dei diritti sociali, del welfare, del sapere e dunque del futuro. È vero che quando il vento soffia di bolina la barca corre, e questa volta nella direzione giusta. Il vento ha cominciato a soffiare un anno fa a Pomigliano, con l'orgoglio degli operai Fiat che in tanti, inaspettatamente per chi aveva cancellato gli operai dalla storia, hanno detto no a Marchionne e al suo ricatto: se volete lavorare abbassate la testa, rinunciate ai vostri diritti, al contratto nazionale, a votare gli accordi che vi riguardano e a eleggere liberamente i vostri rappresentani. Da Pomigliano, come dal carroponte della Innse o dall'Asinara occupata dai cassintegrati della chimica o da Mirafiori, lo scatto di dignità è dilagato come un'onda anomala e come un'influenza ha contagiato prima gli studenti in tumultuosa rivolta contro la privatizzazione classista del sapere imposta dalla Gelmini, poi il mondo sempre più diffuso e incazzato del precariato, le donne stanche di una narrazione fatta di notti al bunga-bunga, igeniste dentarie di un uomo malato e non nella dentatura, nipotine di dittatori finalmente pensionati dalle rivolte nella sponda sud del Mare Nostrum e Monstrum che ingoia effetti collaterali di guerre e fame. Ha contagiato i territori in lotta in difesa dell'aria, dell'acqua e della terra. Ha acuito il conflitto dentro il blocco politico e sociale dominante, vassalli e valvassori del nord contro quelli del sud, e viceversa. Bossi rinnova a Pontida il giuramento di fedeltà vigilata a Berlusconi ma il popolo verde deluso non lo segue più come un tempo, i governatorati di Roma e del Lazio sono in subbuglio, così come gli attendenti di Sicilia e Campania. Se l'opposizione volesse davvero far cadere il castello di carte berlusconiano potrebbe soffiare forte, ma forse teme di ereditare il cerino acceso dagli organismi finanziari internazionali che si preparano a imporre all'Italia, chiunque governi, destra o sinistra, ricette antisociali non così dissimili da quelle che stanno incendiando Atene e le piazze di Spagna. L'Italia vive un momento di transizione segnato dal divorzio tra il paese reale e la politica, dopo due partite vinte dai cittadini e non dai partiti. La politica d'opposizione cerca di far suo il risultato ma non smette di litigare al proprio interno, dimostrando di aver capito poco del processo di riappropriazoione popolare delle scelte sulla base di democrazia e partecipazione attiva. Il governo tenta di andare avanti per la sua strada fottendosene di essere ormai minoranza nel paese. I padroni confindustriali lo spingono affinché vari leggi "ad aziendam" per imporre erga omnes il modello Marchionne che è sotto osservazione per antisindacalità persino presso il tribunale di Torino. Marcegaglia, Bonanni e Angeletti hanno già stilato un avviso comune per smantellare contratti nazionali, democrazia e diritti sul lavoro, verso l'ennesimo accordo separato. Eppure il vento soffia ancora, come cantava Bertoli: 30 mila persone, in stragrande maggioranza giovani e giovanissimi, hanno invaso la festa nazionale della Fiom per i 110 anni del sindacato più antico e più moderno, nato nel 1901, un quinquennio prima della casamadre Cgil. Con la collaborazione di Santoro, Benigni, Vauro, Crozza, Guzzanti, Dandini, operai, studenti, donne, precari, popolo dei beni comuni, il segretario generale dei metalmeccanici Maurizio Landini ha dimostrato che minoritari sono gli altri, quei voltagabbana di Cisl e Uil che firmano rese non autorizzate dai legittimi interessati. La Fiom fa iscritti e audience. Sarà un'estate torrida quella italiana, e caldissimo sarà l'autunno, segnato dalle battaglie per i rinnovi contrattuali nel clima sindacale e politico di cui sopra. C'è molto di cui preoccuparsi, ma c'è anche, finalmente, qualcosa in cui sperare. Non c'è molto tempo a disposizione per scrivere un'altra storia, bisogna approfittare del vento che gonfia le vele e spinge la barca della democrazia in mare aperto. |