Il Parlamento italiano è come la ruota di un luna park, basta aspettare un po’ perché chi sembrava definitivamente caduto in basso torni in alto, basta mezzo giro per risalire. Il governo è il regalo per chi riesce a prendere il pennacchio volteggiando sugli aerei della giostra, altro giro altro regalo. I partiti, invece, somigliano alle porte girevoli degli alberghi, chi entra e chi esce, ma poi chi esce ecco che rientra, e viceversa. Nell’arco di mezza estate i colori di Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama sono cambiati mescolandosi, ora attraendosi come i metalli di una calamita e ora respingendosi come poli opposti. Solo sul Quirinale garrisce sempre la stessa bandiera. Prima è caduto il governo Conte, abbattuto dal fuoco amico di un Salvini masochisticamente truccato da Tafazzi e poi è nato il governo Conte che si distingue dal primo innanzitutto per il numero, infatti si chiama Conte-due. I due promoter del nuovo che avanza si chiamano Grillo (“mai col Pd”) e Renzi (“mai coi grillini”). Due giorni dopo il voto di ministri e sottosegretari, tra cui non pochi renziani, l’ex “sindaco d’Italia” (Renzi) ha detto all’“avvocato del popolo” (Conte) che se ne andava dal Pd con un pullman pieno di una cinquantina di banderuole, ma stai sereno premier, giura lo scissionista che seguiterà a sostenere il Governo. Per poter costituire gruppi parlamentari autonomi Renzi ha bisogno di aiutini, qualche pedina eletta grazie a Berlusconi e qualche altra mangiata al Psi di Nencini eletto grazie al Pd. Poi dice: stai sereno Zingaretti, informato della scissione tramite WhatsApp, adesso che me ne sono andato io vedrai che tornano i fuoriusciti D’Alema, Speranza e Bersani. Per ora a varcare la porta del Pd è Beatrice Lorenzin, ex Berlusconi, poi ex Alfano, ex ministra, poi ex indipendente di centrosinistra e ora ha in tasca la tessera firmata direttamente dal fratello del commissario Montalbano. Tout se tient. Se a sinistra (si fa per dire) la giostra gira vertiginosamente, non è che a destra regni la pace. Berlusconi tenta inutilmente di fare il vigile urbano in un traffico impazzito, giurando che l’Opa di Salvini su Forza Italia è fallita e Renzi non è attraente. Ma il governatore della Liguria Toti gli ha mandato un ciaone, come direbbe Renzi, e se n’è andato con un po’ di fedelissimi ad aprire una botteguccia sul terreno di Salvini. Un Salvini che Mara Carfagna, ex vicepresidente di Forza Italia insieme a Toti, vede come il fumo negli occhi ed è accusata di fare gli occhi dolci a Renzi e alla sua Italia Vera che forse potrebbe diventare Forza Italia Vera, o al contrario costituire un drappello di “responsabili” pronti a sostenere il governo Conte-due in caso di tradimento di Renzi. Anche Cesa vorrebbe fare il pontiere di voti al nuovo governo ricostituendo, pensate un po’, la Dc. In casa dei pentastellati la temperatura è vicina all’ebollizione; Di Maio, spinto contro la sua volontà al patto con il diavolo (il Pd), scalda l’acqua e Di Battista, monocratico turista per caso, la surriscalda, mentre il presidente della Camera Fico è accusato di intelligenza con il nemico, anzi ex nemico, insomma con il Pd. Eppure. Eppure, in quest’orgia trasformistica qualcosa sembra cambiare. Per i migranti salvati dalle Ong, che riescono a sbarcare anche grazie a un mutato atteggiamento di un’Europa che tira un sospiro di sollievo per il blocco (momentaneo?) del pericolo sovranista. Per le promesse del premier Conte davanti alla platea della Cgil (tagli delle tasse ai lavoratori, impegno per il Mezzogiorno, lotta all’evasione e alle morti bianche, politiche di sviluppo con il Green New Deal). Per ora titoli, commenta il segretario Landini, vedremo i fatti. Ma è un fatto che per la prima volta dal 1996 un premier va a una grande iniziativa della Cgil, e si confronta su crisi del Sud, dell’imprenditoria e del lavoro, su Whirlpool (che vuole vendere lo stabilimento di Napoli e oltre 400 operai a una società svizzera pronta a farne carne di porco). Un premier ecumenico, Conte, che parla con tutti, dal palco dalemiano di Articolo Uno fino a quello fascista della Meloni. L’accordo politico tra M5S, Pd e Leu è di difficile gestione com’è naturale che sia tra ex nemici ed esposto agli agguati ora di Renzi e ora di Di Battista. Eppure va avanti e quasi miracolosamente si estende nel territorio: alle elezioni regionali dell’Umbria, in seguito a uno scandalo che ha travolto il Pd, è stato trovato un candidato comune capace, forse, di respingere l’assalto di Salvini a una storica regione rossa. Si tratta di un imprenditore, e i padroni com’è noto fanno più punti degli operai. Un tentativo analogo è avviato dai pontieri dei due partiti in altre due regioni prossimamente al voto, Calabria ed Emilia-Romagna. Non mancheranno le occasioni per litigare, dalla riduzione dei parlamentari alla legge elettorale, dal fisco a Benetton. Eppure qualcosa sta, faticosamente, cambiando. Il nemico dei lavoratori Si è presentato sulla scena politica con un’ambizione smodata, da sindaco di Firenze voleva diventare sindaco d’Italia. Nutre un’idea autoritaria e personale del governo fondata su un consenso di tipo plebiscitario. Voleva abolire, oltre al Senato inteso come puro doppione della Camera e inutile fardello, i corpi intermedi in nome di un rapporto diretto con le persone ridotte al rango di elettori passivi e perciò non riconosce il ruolo dei sindacati. Diceva che Marchionne era più utile della Fiom agli interessi dei lavoratori. Ha abolito le Province, anzi ha abolito solo la possibilità di eleggerle da parte dei cittadini. Con il suo volto accattivante e il suo decisionismo ha prima conquistato al Pd il 41% dei consensi, oltre ai complimenti di Berlusconi che vedeva in lui il suo successore naturale, e poi li ha più che dimezzati nel tentativo di snaturare la Costituzione così come aveva già fatto con lo Statuto dei lavoratori. Voleva il controllo totale del suo partito per poi averlo del Paese, non essendoci riuscito ha rotto il giocattolo con una scissione. I sondaggisti gli danno il 4,1 dei consensi, un po’ meno del vecchio 41% e così comunica che non si presenterà alle elezioni regionali con la sua Italia Viva. Ha bisogno di tempo, ma promette che cambierà il volto del Paese e intanto cambia la colonna sonora: mai più Bandiera rossa. Non è riuscito a portar fuori dal Pd i sindaci a lui legati, a partire da quello di Firenze, ha preso con sé la fedele Boschi ma ha lasciato a Zingaretti il fedelissimo Lotti per continuare a presidiare il campo. Prepara la nuova Leopolda, il cui finanziatore è rimasto impigliato nella rete della magistratura. È vero che la politica italiana è come la ruota della giostra, ma sarà difficile rivedere Matteo Renzi sogghignare nella cabina più alta. Un grande risultato l’ha raggiunto, però: diventare il leader più odiato tra i lavoratori italiani.
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