A 38 anni Emma Dante è considerata unanimemente una delle realtà più innovative e solide della drammaturgia contemporanea italiana. Dopo esser stata socia del gruppo della Rocca dal 1993 al ‘95, Dante nell’agosto del ‘99 ha fondato la compagnia teatrale Sud Costa Occidentale. Da allora è stato un crescendo d’interesse sia da parte dei critici, che del pubblico, prima in Italia e ben presto anche all’estero, dove il suo lavoro è sempre più richiesto. Fra gli spettacoli concepiti, scritti e diretti da Dante per Sud Costa Occidentale si possono ricordare “Mpalermu”, “Carnazzeria” e “Medea”. Ora a percorrere le scene di mezza Europa è la sua ultima creazione, “Mishelle di Sant’Oliva”, che sarà questa sera e domani sul palco dello Studio Foce di Lugano per il risorto Festival internazionale di teatro. È a partire da questo spettacolo che, nell’intervista che segue, Dante parla del senso del suo lavoro e della sua vita. Emma Dante, lei definisce “Mishelle di Sant’Oliva” uno spettacolo più attento al rapporto padre-figlio che al tema dell’omosessualità. In questo modo lavora di nuovo sulla famiglia: che cosa la attrae di questo microuniverso? Attraverso questo microuniverso io posso raccontare un macrouniverso. Raccontando una famiglia posso raccontare una città, nel mio caso Palermo. Paradossalmente la famiglia mi serve ad avere una visione più ampia. Se io raccontassi in maniera più generale una storia probabilmente non riuscirei ad acchiapparne il senso. Sono le prime dinamiche, quelle famigliari, che formano l’essere umano, è nella famiglia che si decide tutto, perché lì si forma l’individuo, si decide se sarà un assassino o un angelo, si capisce quali saranno i suoi desideri e le sue relazioni col mondo. La famiglia è il primo ventre. Questo essere determinati dalla famiglia è un aspetto più tipicamente palermitano che di altre realtà? Al Sud la famiglia segue dei cerimoniali molto più precisi rispetto al Nord, dove l’individualismo è più forte. Ma la famiglia ha anche una funzione protettiva e garantisce la figliazione, non è solo negativa. Anche se proprio in Sicilia rischia di degenerare nella famiglia mafiosa siciliana, per cui la cosca diventa il posto in cui tutto è lecito ma dove vigono leggi spietate, violente ed illegittime. La degenerazione esiste, anche se io ne parlo solo in “Carnazzeria”. Lei ha sentito il peso della famiglia nella sua vita? Sì, anche se amo i miei famigliari, ma c’è sempre un rapporto di amore-odio. Credo che un individuo nella vita sia profondamente solo, e il falso aggrapparsi a una situazione che non si è scelto rende difficile il relazionarsi. Mi pare molto difficile poter appartenere ad una famiglia in cui ci sia una vera libertà di pensiero e di azione. Non le pesa ora la lontananza da Palermo determinata dal grande successo anche internazionale che sta riscuotendo il suo lavoro? Nel mio teatro la mia biografia è determinante, e quindi la città di Palermo è centrale. In realtà però staccarmi da essa mi porta molto più vicina a Palermo di quanto non si possa immaginare. Paradossalmente quando sono a Palermo mi sento più lontana da lì, da un certo modo di vivere e di pensare che mi fa rabbrividire: cerco una distanza di sopravvivenza. Sento più vicina la mia città quando sono all’estero, perché raccontarla e reinventarla nei miei spettacoli è uno sfogo personale che me la fa capire meglio. Lei ha le condizioni ideali per lavorare a Palermo? No. Le istituzioni non hanno interesse a sostenere il mio lavoro. A Palermo mi occupo dell’orto e del giardino di casa mia, ho un gatto e mi vedo con i miei compagni al centro sociale occupato e lì proviamo. Si tratta di spettacoli che però non rappresentiamo a Palermo perché non abbiamo uno spazio. Abbiamo invece molto pubblico, che è costretto a spostarsi per venirci a vedere. Il suo teatro risalta di primo acchito per la marcata fisicità della messa in scena. Però lei fa anche un profondo lavoro di scrittura, in particolare sul dialetto. Quale fra la dimensione fisica e quella della scrittura è per lei prioritaria? Dipende dalle fasi della vita. In questo momento per me è più importante la scrittura, ma vengo da una fase in cui è stata più importante la fisicità. È come se avessi imparato ed insegnato ai miei attori a parlare, e poi mi fossi occupata della parola. È un percorso primitivo: quando non abbiamo niente e dobbiamo inventarci il modo per comunicare tra di noi, allora partiamo da ciò che di più primitivo abbiamo, dimenticandoci tutto il resto. Piano piano costruiamo l’emissione vocale, che si trasforma poi in parola e che infine acquisisce un senso. Siccome sono quasi sei anni che lavoriamo assieme, ora abbiamo la parola e il gesto che l’ha generata. Adesso quello che m’interessa è lavorare sulla scrittura. Infatti “Mishelle di Sant’Oliva” rispetto agli altri spettacoli è molto più fermo, più saldo, e ha un lavoro sulla scrittura più complesso dei precedenti. In futuro questo lavoro dove la porterà? Sicuramente ci sarà un momento in cui si esaurirà in me tutto questo fervore. Ho paura di quel momento, ma lo accetterò. Adesso voglio unire queste due componenti, è come se stessi facendo un esperimento chimico: mi piace pensare che sto cercando un antidoto per qualche malattia. Quale malattia? La malattia del mondo, forse incurabile, la degenerazione dell’essere umano in tutti i suoi atti, i gesti impropri e bestiali che non dovrebbe fare ma che fa pur vivendo nella civiltà. Io sto cercando di capire come fare per scorgerla, non per curarla. La malattia è l’indifferenza, la superficialità, l’approssimazione che sento intorno a me. E che fa sì che tutte le cose orrende che accadono al mondo vengano cancellate: per sopravvivere tendiamo a non avere memoria, a rimuovere. È una malattia terribile. In lei però si percepisce una fortissima energia. Da dove viene, dal gruppo? Sì. Io riesco a coinvolgere le persone, queste però a loro volta ricoinvolgono me. È uno scambio continuo di energia. Per lavorare con me scelgo delle persone capaci di smuovere questi meccanismi, di mettersi in discussione e di creare dei cortocircuiti in sé e negli altri. Ne risulta un gruppo che ha una volontà fortissima e che difende in maniera stratificata il lavoro che fa. Lei ha detto di avere come riferimento il lavoro di Jerzy Grotowski e di Tadeusz Kantor. In che modo? È difficile riprendere l’eredità di qualcuno che non si è conosciuto fisicamente, perché il teatro va fatto con la carne. Per cui un Grotowski o un Kantor li puoi studiare, ma solo per riprenderli a modo tuo. Io di Grotowski faccio poco, se non gli esercizi che faceva fare ai suoi attori. Lui aveva spietatamente chiuso le porte al mondo, io al contrario cerco di aprirle: non ho l’assoluta abnegazione che lui aveva per il teatro. Anche perché comincio a desiderare una mia vita privata, sento che è il momento di distinguere fra teatro e vita, perché voglio un figlio e una famiglia. Voglio indagare da me, con la mia esperienza, tutte le cose che racconto a teatro. Il mio maestro virtuale, soprattutto dal profilo teorico, quindi è semmai Kantor, il più grande teatrante del ‘900, un vero artista non compreso, che ha fatto della vera innovazione. Ha fatto dei salti nel buio senza paura di cadere. Da cosa nasce il bisogno di fare qualcosa lei come persona? La vita la sento così veloce e breve che mi sono chiesta se fosse tutto qui: stare sempre chiusa in un teatro a spiegare cose inspiegabili. Ho vissuto cinque anni molto intensi, di fuoco, che hanno generato gli spettacoli che mi hanno fatto conoscere. Ma nel frattempo ho messo da parte la mia vita personale: ogni sera tornavo a casa ed ero profondamente sola. Per me è ora necessario avere una condivisione nella vita con qualcuno che abbia anche altri interessi. Non so da quanto tempo non faccio più un viaggio che non sia per uno spettacolo, che poi anche se sono diversi in definitiva è sempre lo stesso spettacolo. Sento che, se non mi sgancio da questa routine, presto non avrò più niente da dire. Devo occuparmi e preoccuparmi di me anche come donna: mi sento un camionista, mi vedo in un corpo che non riconosco. Questi cinque anni sono stati troppo. Troppo.

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21.10.05

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