Ancora ben dentro al Novecento hanno girato fra l’Europa ed il Nord America, al seguito di mercati e fiere, degli strani circhi che esponevano un campionario di varia umanità deforme o strana, sempre comunque diversa, dall’aborigeno alla donna barbuta. Oggi un circo simile ha ripreso a viaggiare per il Ticino. Non più al seguito delle fiere, ma nelle scuole medie e superiori del Cantone. È il circo del Trickster Teatro che, fino a metà marzo, porterà la sua nuova produzione, “La fiera di San Bartolomeo” in diverse sedi scolastiche per oltre 50 repliche. Diretto da Cristina Galbiati ed interpretato da Ledwina Costantini, Ilija Luginbühl e Noce Noseda, questo spettacolo, che si svolge sotto un tendone da montare in palestra, vuole sensibilizzare il suo giovane pubblico sul tema delle discriminazioni. Gli spettatori vengono infatti portati a sperimentare in prima persona quanto banali e consueti siano i meccanismi della discriminazione per porsi direttamente in discussione nei comportamenti quotidiani. Tutt’altro che semplice per i contenuti ma lineare nel suo sviluppo, “La fiera di San Bartolomeo” poggia su un solido lavoro di ricerca laboratoriale e di prassi attoriale. È la seconda produzione del Trickster destinata alle scuole come strumento di sensibilizzazione dopo “Aaighh!”, spettacolo interattivo sul tema della violenza non fisica che ha avuto 80 repliche in Ticino e 50 in Italia. Cristina Galbiati, come è nato il nuovo spettacolo per ragazzi del Trickster Teatro “La fiera di San Bartolomeo”, di cui lei ha curato la regia? Volevamo ancora fare uno spettacolo interattivo per ragazzi, superando alcuni limiti di “Aaighh!”. Lavorando ci siamo imbattuti nel documentario “Odio gli occhi chiari” che illustra il lavoro svolto nelle scuole americane da Jane Eliot. Il suo approccio al problema dei pregiudizi ci sembrava potesse dare il taglio giusto allo spettacolo senza che ci mettessimo a fornire facili soluzioni: volevamo infatti evitare il moralismo, che è una trappola in cui si cade facilmente trattando temi sociali. Abbiamo quindi cominciato a lavorare con molte improvvisazioni sui meccanismi dell’emarginazione. In un secondo tempo abbiamo lavorato specificamente sui testi di “Odio gli occhi chiari” per trovare la dimensione teatrale dello spettacolo. La drammaturgia finale è quindi una sintesi del lavoro di Eliot e delle nostre improvvisazioni. Qual’è la tesi alla base dello spettacolo? Ci interessava il meccanismo che crea e perpetua le discriminazioni, di qualsiasi tipo siano. Sono meccanismi che tutti noi conosciamo perfettamente dalla nostra vita quotidiana, chi per averli subiti, chi per averli usati: tutti, se lo vogliamo, sappiamo come sottomettere un’altra persona e come aumentare il nostro potere. Per questo lo spettacolo non accusa una categoria specifica di persone, ma ci mette in discussione tutti individualmente. Ciò ci permette di evitare il facile moralismo e la caduta nel teatro politico che, concentrandosi sull’accusa, rischia di provocare la chiusura nel pubblico, negando la possibilità di riflessione e di una presa di coscienza individuale. “La fiera di San Bartolomeo” può man mano richiamare alla memoria diverse situazioni di discriminazione: da quella dei richiedenti l’asilo ai portatori di handicap, dagli omosessuali agli ebrei nella Germania di Hitler. Voi avete lavorato pensando a delle situazioni in particolare? Eliot ha sviluppato il suo progetto negli Stati Uniti soprattutto in relazione ai neri. Noi da questo approccio ci siamo staccati, sia perché da noi una situazione di discriminazione così palese per il colore della pelle non c’è (mentre c’è ad esempio nei confronti di persone di origine slava), sia perché non ci interessava tanto il razzismo quanto il pregiudizio. Ad esempio quello nei confronti degli omosessuali. Cerchiamo di far emergere situazioni di discriminazione ed emarginazione molto diverse ma comunque sempre dolorose. Ad un recente spettacolo un ragazzino ci ha raccontato la sua esperienza di emarginazione perché fa danza classica. Un’altra volta un ragazzo di colore, che aveva assistito con molta irrequietezza alla rappresentazione, ci ha chiesto se tutto ciò che mostravamo fosse vero: e quella era una domanda non ingenua, ma che racchiudeva un disagio nei confronti del resto del gruppo che non poteva essere espresso altrimenti. Nel nuovo spettacolo ancora una volta scardinate le consuetudini teatrali per raggiungere una reazione emotiva. “La fiera di San Bartolomeo” è frutto di un grosso lavoro di ricerca, pur non presentandosi come un tipico lavoro di teatro di ricerca. È stata una ricerca prima di tutto di linguaggi teatrali e di modalità espressive, perché non volevamo replicare “Aaighh!” ma avevamo l’ambizione di fare un ulteriore salto di qualità. Molti considerano il teatro semplicemente come un “andare a guardare”, non come un “andare a partecipare”. Per questo all’inizio andiamo a prendere il pubblico fuori dalla sala e lo accompagniamo tranquillamente al suo posto. Noi in realtà al pubblico chiediamo molto, a volte attaccandolo anche direttamente. Questo può provocare reazioni di rifiuto o giudizi negativi sullo spettacolo, ma sono da accettare perché sono nella logica dell’operazione. Con "La fiera di San Bartolomeo" colpite a volte emotivamente anche dei ragazzi che una discriminazione la subiscono direttamente sulla loro pelle. Non avete paura di ferirli? Ce lo siamo chiesto spesso in fase di montaggio dello spettacolo. Soprattutto perché ci sono momenti in cui prendiamo di mira anche il singolo ragazzo in quanto spettatore: ma cerchiamo di non colpirlo in una sua caratteristica privata o in un suo punto debole. Inoltre tutto lo spettacolo è un’alternanza di momenti forti e altri leggeri, che sdrammatizzano. Tutto questo fa sì che i ragazzi vittime di discriminazioni vedano in noi degli alleati, capiscono che stiamo giocando con loro e non contro di loro. Al punto che spesso durante la discussione che segue lo spettacolo molti di loro dichiarano pubblicamente di subire questa o quella discriminazione: un atto tutt’altro che facile. Il Trickster con i ragazzi ha lavorato finora a tre livelli di elaborazione teatrale: le azioni spontanee e non teatrali sui treni nell’ambito di un progetto di prevenzione dalle dipendenze, lo spettacolo “Aaighh!” (che implicava una forte partecipazione in prima persona degli spettatori) e “La fiera di San Bartolomeo”, che ha un’elaborazione drammaturgica più marcata. Quale di questi approcci vi sembra il più indicato per sensibilizzare i giovani? Direi quest’ultimo, benché sia un allestimento meno immediato. “Aaighh!” infatti funzionava sull’entusiasmo, i ragazzi alla fine erano galvanizzati perché davamo l’occasione a molti di loro di salire sul palco e di divertire i compagni. “La fiera di San Bartolomeo”, che certamente incontra più resistenze a livello epidermico, tocca però corde molto più profonde. “Aaighh!” aveva una drammaturgia volutamente molto semplice, anche perché la scelta stilistica era puramente naturalistica. Con “La fiera di San Bartolomeo” abbiamo invece voluto espressamente elaborare una drammaturgia più complessa, lasciando in gran parte il gioco di ruolo per usare maggiormente gli strumenti del teatro. Questo perché volevamo toccare lo spettatore ad un altro livello che non fosse solo quello letterale del testo e dell’interazione. I giovani spettatori di “Aaigh!” rimanevano infatti più colpiti da aspetti esteriori come la recitazione, la musica o le battute; nel nuovo spettacolo invece i ragazzi si dicono colpiti dal tema, dalla reazione loro di fronte allo spettacolo o dai paralleli con la vita reale che possono fare. Cosa avete imparato dal lavoro di prevenzione con i giovani? Frequentare i ragazzi porta a metterti sulla loro stessa lunghezza d’onda. E questa è diventata una nostra caratteristica: non vogliamo porci come maestri, depositari di una verità. Per noi, se questo spettacolo sarebbe funzionato o no, è rimasta un’incognita fin quando non l’abbiamo proposto al pubblico: temevamo in qualche modo la reazione dei ragazzi. Oggi ho invece capito che hanno un rispetto enorme per il nostro lavoro e percepiscono la cura che vi è stata messa. “La fiera di San Bartolomeo” ci permette di dar fondo al nostro bagaglio tecnico, ma il messaggio dello spettacolo mi sembra molto più forte del fatto che gli attori recitino per oltre un’ora sui trampoli: il pubblico quasi subito non bada più alla tecnica, che diventa ciò che sempre dovrebbe essere, cioè un mezzo. Eppure i nostri spettatori percepiscono il lavoro e la fatica che ci abbiamo messo, e li rispettano. Non è quindi vero che i giovani banalizzano tutto: sanno essere anzi molto profondi, seppure in maniera istintiva.

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21.02.03

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