Ci stiamo avvicinando alle elezioni cantonali del prossimo 2 aprile. I sondaggi non prevedono grandi cambiamenti, ma l’appuntamento elettorale è uno spunto per fare un bilancio da un punto di vista sindacale dell’ultimo quadriennio. Un bilancio che per il segretario regionale di Unia Ticino Giangiorgio Gargantini è decisamente negativo. Giangiorgio Gargantini, il quadriennio è stato segnato dalla crisi pandemica. Cosa ricorda di quei giorni? Il mio mandato come segretario regionale era iniziato da poco e, oltre ad un’inevitabile preoccupazione come individuo, mi ricordo il senso di responsabilità che sentivamo, da sindacalisti, per quanto concerneva la salute sul posto di lavoro. Soprattutto per coloro che in quelle tragiche settimane hanno continuato a lavorare.
Come valuta, complessivamente, l’operato del governo durante la pandemia? Occorre fare un distinguo. C’è stata una prima fase nella quale il Ticino si è trovato confrontato quasi per primo in Europa a una malattia della quale non si sapeva nulla. Inizialmente, vi è quindi stata un’unità d’intenti quasi generale. Purtroppo, però, ciò è durato poco e non si è ripetuto nelle fasi successive come quando, nell’autunno e inverno 2021, il Governo ticinese si è rifiutato di riproporre qualsiasi tipo di misura a protezione di lavoratrici e lavoratori. Ci si è così ritrovati con un tasso di decessi percentualmente tra i più alti d’Europa. Si stava vivendo un dramma e nessuno a livello politico ha fatto nulla per fermarlo.
Fra i principali temi politici del quadriennio vi è senz’altro stata la saga sul salario minimo. È soddisfatto di come è andata a finire? A livello politico, non posso certo esprimere soddisfazione su come è stato gestito questo dossier benché l’attuazione della nuova legge ha dimostrato che le cassandre padronali sull’instaurazione di un salario minimo cantonale non si siano verificate. A suo tempo non abbiamo sostenuto l’iniziativa dei Verdi argomentando due grossi aspetti critici: la non fissazione di una cifra e il pericolo dato della supremazia dei contratti collettivi. In sede di bilancio possiamo ora dire che avevamo ragione.
Proprio la questione legata alla supremazia dei contratti collettivi ha dato adito alla triste vicenda TiSin, lo pseudo sindacato di matrice leghista. Qual è il suo giudizio sulla vicenda? In fondo, il governo, tramite l’Ispettorato del lavoro, ha stigmatizzato senza troppi mezzi termini l’operato di TiSin… Non sono d’accordo, perché il governo non può esprimersi per un tramite, ad esempio l’Ispettorato del lavoro. La questione è stata abbordata unicamente da un punto di vista giuridico che ha dimostrato che TiSin non era un sindacato. La decisione dell’Ispettorato del lavoro è uscita sui giornali e le aziende hanno fatto così marcia indietro. È però completamente mancato un rifiuto politico del governo su questa vicenda. Il Consiglio di Stato avrebbe dovuto intervenire subito, risolvendo celermente la questione che invece si è trascinata per mesi. Questo non è l’unico caso dove l’esecutivo si è dimostrato politicamente assente sulle questioni del mondo del lavoro.
Ci fa un altro esempio? Penso al caso dei fattorini di Divoora, sottoposti al lavoro gratuito e pagati al minuto. Anche in questo caso l’Ispettorato ha svolto la sua inchiesta. Le decisioni però non sono state pubblicate e, in assenza di una chiara presa di posizione politica, si è lasciato continuare a lavorare l’azienda con quel vergognoso e inaccettabile sistema. Si permette così di sviluppare un sottobosco di abuso e di negazione dei diritti che sono devastanti per il mercato del lavoro. La decisione dell’autorità di nascondersi dietro a una sorta di braccio giuridico come l’Ispettorato del lavoro non è sufficiente: ci vorrebbe un chiaro segnale politico da parte del governo che vergognosamente è mancato.
Gli ultimi dati statistici dimostrano, ancora una volta, che il Ticino è il fanalino di coda in Svizzera per quanto riguarda i salari. Di chi è la colpa? La prima colpa è senz’altro di chi questi salari li paga, di quella parte dell’economia che approfitta vergognosamente della situazione particolare del territorio ticinese. Una responsabilità però ce l’ha anche il governo che non ha ancora oggi un piano di sviluppo economico chiaro efficace e orientato al medio termine.
Governo che continua a dire che tutti gli indicatori economici – disoccupazione, creazione di posti di lavoro – sono positivi. I dati statistici in effetti lo confermano, ma cosa si nasconde dietro queste cifre? La realtà dei fatti è senza dubbio più drammatica. Le modifiche della legge volute dalla maggioranza di destra hanno reso più difficile l’accesso alla disoccupazione. Ciò ha provocato una diminuzione statistica dei disoccupati. La Svizzera è inoltre l’unico paese europeo a considerare nei tassi ufficiali di disoccupazione gli iscritti agli uffici di collocamento e non le persone che realmente sono senza lavoro. Se prendiamo, l’altro strumento di misurazione dei disoccupati, quello utilizzato dall’Organizzazione internazionale del lavoro, i tassi del Ticino in questo quadriennio hanno superato addirittura quelli della Lombardia. Anche in questo caso però, per il governo sembra andare tutto bene.
D’altronde i posti di lavoro crescono... Anche in questo caso non ci s’interroga sulla natura di questi nuovi posti di lavoro. Spesso si tratta di impieghi precari, a tempo parziale imposto o basati su contratti senza minimi di ore assicurati. Si continua a mettere in avanti la creazione di posti di lavoro, senza considerare che siamo di fronte a un peggioramento con il numero di interinali che è raddoppiato in dieci anni e con sempre più persone che non possono vivere del proprio lavoro e che sono povere. In Ticino sono diminuiti i disoccupati, ma aumenta in maniera preoccupante il numero dei non occupati che non rientrano in categorie classiche. La politica, anche in questo caso, sembra totalmente assente e non si interroga su questo fenomeno.
Altro tema caldo è stato quello degli orari dei negozi. Anche qui sono successi dei pasticci... Sì, il tribunale federale ha dato ragione a Unia ribadendo che il legame tra la legge e il contratto collettivo era incostituzionale. Purtroppo, ciò non ha giustificato una marcia indietro e la legge che abbiamo contestato è entrata in vigore. Resta il fatto che, ancora una volta, la politica cantonale ha lavorato male con una legge al limite della legalità. Uno dei primi appuntamenti della prossima legislatura sarà la votazione in giugno sul referendum lanciato dai sindacati contro la nuova legge che liberalizza sempre di più le aperture. Governo e parlamento proprio non ci sentono su questo fronte: per loro chi lavora nella vendita non conta. Come se lo spiega? Penso che il padronato e quella parte politica al suo servizio, in questo caso il partito liberale e la lega dei ticinesi, siano rinchiusi in una sorta di dogma ideologico. Pensare che aumentare gli orari di apertura dei negozi favorisca nuovi consumi è pura follia, soprattutto in un contesto come quello ticinese di salari bassi. La cosa assurda è che non solo non viene considerata la voce di chi lavora, ma anche degli stessi piccoli commercianti. L’attuale legge permette già l’apertura domenicale e festiva ai negozi con superfici minori a duecento metri quadrati e ubicati in zona turistica: in pochi utilizzano questa possibilità. L’aumento previsto dalla nuova legge delle superfici di vendita non farà che favorire i grandi gruppi che mangeranno così clienti ai piccoli. Ciò che dimostra ancora una volta da che parte sta la maggioranza politica in Ticino.
Di recente, il mondo economico ha chiesto alla politica di agire. Temi principali: formazione e fiscalità, con nuovi sgravi e l’abbassamento dell’aliquota per le persone giuridiche. Un suo commento. A destra, le continue richieste di diminuzioni fiscali si alternano al drammatico discorso sulle casse vuote e sull’austerità dello Stato. È una contraddizione che salterebbe all’occhio anche a un bambino. Inoltre, parlare di sviluppo dell’economia sempre per il tramite della leva fiscale è fuori luogo. Lo dimostra il caso della Fashion Valley, che fino a poco tempo fa era considerata il settore di punta dello sviluppo economico ticinese, ma che si è rivelata essere un castello di carta crollato una volta scoperto e annientato − dall’estero − il giochetto fiscale. Anche in questo caso vi è una grave responsabilità da parte delle autorità cantonali.
Il sindacato cosa si sente di chiedere, quali le priorità? La priorità dovrebbe essere quella di fare in modo che il Ticino ritorni a essere Svizzera: avere dei salari, delle condizioni di lavoro, dei livelli di povertà e di ricchezza come nel resto del paese. In misure pratiche significa un aumento rapido del salario minimo fino ai massimi permessi dalla giurisprudenza federale e l’implementazione di tutta una serie di misure che il sindacato rivendica da anni a livello di protezione dai licenziamenti, di uguaglianza salariale e di conciliazione lavoro/famiglia. Infine rimetto sul tavolo la creazione di una divisione in magistratura dedicata al lavoro, perché anche in questo ambito i problemi sono enormi e le risposte totalmente inadeguate.
Un voto finale al governo? Chiaramente insufficiente, con una maggioranza del governo che meriterebbe una bocciatura e un riorientamento in altre filiere formative.
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