Ecco ciò che resta dell'Iraq

A un anno dall’inizio della guerra la situazione in Iraq è drammatica, mancano ancora i servizi essenziali: elettricità e acqua sono forniti saltuariamente, le linee telefoniche distrutte con la guerra sono state sostituite, ma solo lo scorso mese dopo che erano state risolte dispute per gli appalti, con un sistema mobile. Scarseggiano le bombole di gas e soprattutto la benzina, un paradosso per un paese che galleggia sul petrolio. Dopo lo scandalo della Halliburton, la compagnia texana già guidata – dal 1995 al 2000 – dal vice del presidente George W. Bush, Dick Cheney, che aveva gonfiato le fatture per l’importazione della benzina dal Kuwait, l’esercito americano ha appaltato le forniture a sei compagnie turche e a una americana. A rendere insostenibile la situazione è soprattutto la disoccupazione: sebbene sia difficile avere statistiche in una situazione di totale anarchia, è stimata intorno al 70-75 per cento degli iracheni. L’occupazione, che già sotto il passato regime aveva sofferto gli effetti dell’embargo, è stata ulteriormente penalizzata da una delle prime misure adottate dalle forze di occupazione: lo scioglimento dell’esercito e dei ministeri della difesa e dell’informazione, che ha gettato sul lastrico almeno 400mila persone. Alle quali se ne sono aggiunte altre a causa del processo di “debaathizzazione”: non solo è stato sciolto il partito unico Baath ma sono stati sospesi dal lavoro – una sorta di prepensionamento – tutti coloro che erano iscritti al partito dal quarto livello in su, e in un paese dove per ottenere un lavoro era obbligatorio iscriversi al partito è facile immaginare le conseguenze. Prepensionati – con cento dollari al mese – anche i dipendenti delle aziende che dipendevano dal ministero della difesa, compresi giovani ingegneri che sarebbero indispensabili alla ricostruzione del paese. Per ora di ricostruzione non si vede l’ombra, comunque i progetti sono preparati dagli occidentali e la manovalanza spesso viene importata dall’Asia, costa meno. E dopo la scadenza, il 20 novembre scorso, della “oil for food” (la risoluzione delle Nazioni unite approvata nel 1995 per permettere all’Iraq l’esportazione di petrolio per importare cibo e medicine) che garantiva la distribuzione di razioni alimentari dalle quali dipendeva totalmente il 60 per cento della popolazione, la situazione si fa ancora più precaria e drammatica. Fino a novembre era stata l’Onu, attraverso il World food programme, a garantire una proroga, ma ora tutto è finito nelle mani della Coalition provisional authority, l’amministrazione delle forze di occupazione guidata da Paul Bremer. Questa situazione lascia facilmente intuire i motivi dell’aumento della ostilità nei confronti dell’occupazione che, teoricamente, dovrebbe finire il 30 giugno, quando i poteri dovrebbero passare a un governo ad interim. Non che le truppe straniere lasceranno il paese, tanto meno quelle americane, che però verranno ridotte a circa 100mila uomini che dovrebbero ritirarsi entro cinque/sei megabasi già in costruzione. L’obiettivo, oltre alla riduzione delle perdite, è quello di dare la parvenza di un governo sovrano iracheno per poter accelerare il processo di privatizzazione delle proprietà dello stato iracheno, tranne, per ora, le risorse naturali, come deciso lo scorso settembre. La legislazione internazionale – convenzioni di Ginevra – non permette infatti alle potenze colonizzatrici di appropriarsi delle risorse del paese occupato, occorre quindi avere una copertura: dare l’impressione che le decisioni vengano prese da un governo iracheno. Il Consiglio governativo nominato da Paul Bremer lo scorso luglio, non solo non è riconosciuto dagli iracheni ma è sottoposto al controllo e al veto del proconsole di Bush, quindi si deve emancipare. Anche se probabilmente saranno gli stessi “25” scelti da Bremer a rimanere in carica fino alle elezioni previste entro il gennaio 2005, cambierà solo nome: da Consiglio governativo o governo ad interim. L’amministrazione Bush deve accelerare il piano di privatizzazione e realizzarlo finché può contare su un governo controllato e controllabile; dopo le elezioni, la maggioranza potrebbe finire nelle mani dei partiti religiosi sciiti e il compito potrebbe presentarsi più arduo. Sebbene gli islamisti non siano contrari alle privatizzazioni e al liberismo economico, non sarebbero certamente entusiasti di svendere il loro patrimonio alle multinazionali americane. Finora, le forze della coalizione non sono nemmeno riuscite a sfruttare a fondo la maggiore risorsa dell’Iraq, il petrolio. La produzione attuale con 2,3 milioni di barili al giorno è ancora inferiore a quella di prima della guerra (2,8 milioni), così anche le esportazioni: 1,7 contro i 2-2,3 milioni di barili di prima dell’occupazione. Peraltro, si parla solo ora di una riattivazione dell’oleodotto che porta il petrolio da Kirkuk verso il porto turco di Ceyhan, rimasto bloccato dai continui sabotaggi. A esportare finora erano solo la Southern oil company e la Basra oil company, dal porto di Um Qasr, nel sud. Ed è qui che i lavoratori del settore petrolifero, dopo uno sciopero, in febbraio, sono riusciti a vincere una battaglia per aumenti salariali: il minimo è passato da 50-55 a 85 dollari al mese. Di questa conquista (ancora limitata) beneficeranno anche i lavoratori dei campi di Kirkuk e delle raffinerie di Baiji (vicino a Tikrit) e di al Dora a Baghdad. Nonostante gli enormi problemi, anche di sicurezza, nella società civile c’è un grande fermento: i partiti sono stati i primi a organizzarsi o riorganizzarsi, soprattutto quelli storici, come il Partito comunista, costituito nel 1934, e poi il Dawa, il primo partito religioso costituito nel 1957 per togliere terreno ai comunisti. Ci sono partiti religiosi, laici, socialisti e liberali. I partiti curdi – il Partito democratico del Kurdistan e l’Unione patriottica del Kurdistan – sono i più consolidati perché governavano il Kurdistan con una forte autonomia dal 1991. Poi si stanno organizzando sindacati, leghe di disoccupati, organizzazioni studentesche e soprattutto associazioni di donne, numerose. Che, con una forte mobilitazione, sono riuscite a sconfiggere il tentativo di annullare il codice della famiglia – in vigore dal 1959 e considerato uno dei più progressisti nel mondo arabo-islamico – e di sostituirlo con la sharia (legge islamica), come aveva tentato di fare il leader sciita Abdelaziz al Hakim, lo scorso dicembre.

Pubblicato il

26.03.2004 03:30
Giuliana Sgrena