«È un grido d’aiuto da non sottovalutare»

La quantità di studenti che dichiara di avere pensieri autolesivi o idee suicidarie preoccupa lo psicologo Nicholas Sacchi: «I giovani hanno paura del futuro, vanno rassicurati»

Un terzo della popolazione studentesca in Ticino soffre di sintomi depressivi, il 37 per cento ha già avuto pensieri suicidari e/o autolesionistici. Questi alcuni dei risultati emersi da un’indagine svolta dal Sindacato indipendente degli studenti e apprendisti. Ci dobbiamo preoccupare? Ne abbiamo discusso con uno psicologo e psicoterapeuta.

 

I giovani stanno soffrendo, sono sotto pressione e faticano a vedere un futuro, se ne parla da tempo e diversi studi lo confermano. Il più recente è quello del Sindacato indipendente degli studenti e apprendisti (Sisa) che, partendo dal presupposto che delle pessime condizioni di studio equivalgono ad un aumento dei rischi psico-sociali per studentesse e studenti e considerando che la situazione era già critica nel periodo pre-pandemia, ha deciso di fotografare la situazione in Ticino. Abbiamo discusso i risultati con Nicholas Sacchi, presidente dell’As- sociazione ticinese degli psicologi (Atp).

 

Nicholas Sacchi, lo studio del Sisa sulla salute mentale della popolazione studentesca in Ticino rileva che un terzo degli interpellati soffre di sintomi depressivi. Immagino che i dati non la sorprendano più di tanto visto che rispecchiano una tendenza in atto già da diversi anni, come leggerli però?

 

Si tratta di una tendenza che sicuramente abbiamo già visto essere esplosa con la pandemia, con un aumento dei disturbi d’ansia e dei disturbi legati all’area depressiva. Quello che però lo studio del Sisa fa, è dare un peso ad alcuni sintomi che sono estrapolati dalla diagnosi di depressione, ma che non sono una diagnosi (e loro stessi lo precisano): il fatto che gli interpellati si sentano così non significa che siano depressi. È chiaro però che se i ragazzi dicono che sentono maggiore inappetenza, maggiori stati di alterazione del tono dell’umore al ribasso, difficoltà nel concretizzare anche quelli che sono i loro obiettivi, l’interlocutore Stato deve chinarsi sulla questione.

Ciò che mi lascia a bocca aperta è però la quantità di persone che hanno dichiarato un’attitudine più o meno frequente a pensieri autolesivi così come anche a ideazioni suicidarie (sottolineo ideazioni e non intenzioni, son due cose diverse). Queste vanno prese sempre con le pinze e vanno analizzate perché può capitare che in adolescenza si pensi al fine vita senza strutturare un pensiero vero e formale verso questo, ma proprio perché

c’è questa frequenza, non va comunque banalizzato. Va ascoltato ogni singolo grido d’allarme perché pensare di togliersi la vita significa non vedere il proprio futuro, pensare che l’unico futuro possibile sia quello di non avere un futuro. Questi sono pensieri da destrutturare, soprattutto in ragazze e ragazzi che devono trovare una propria identità.

 

 

In Svizzera il tasso di suicidi è alto rispetto alla media europea e secondo uno studio dell’Unicef del 2021 un giova- ne ogni 11 ha tentato almeno una volta di togliersi la vita. Perché secondo lei il tema del suicidio è ancora tabù?

 

Non so se il suicidio è ancora un tabù, sicuramente lo è stato, ma diciamo che il senso comune ha cercato di renderlo più fruibile come concetto e quindi di poterci chinare un po’ la testa. Oggi di suicidio se ne può parlare di più rispetto a una volta e se ne parla, bisognerebbe parlarne con i giovani e la scuola può farlo. La situazione dalla quale dobbiamo partire è il fatto che ci siano persone che passano all’atto, sono persone che da qualche parte mandano un segnale molto forte e passano all’atto nonostante ci sia stata anche una rete che ha provato a dissuaderli.

La pandemia ci ha tolto il tappeto da sotto i piedi perché ci ha messo di fronte al fatto che tu puoi progettare tutto e poi arriva qualcosa di invisibile che ti toglie la speranza, il controllo sul poter fare qualcosa. Quindi i ragazzi e le ragazze si sentono chiamati a investire in un futuro che poi però a causa di qual- cosa che arriva all’improvviso può cambiare completamente, e allora sentono di non avere il futuro così tra le loro mani, capiscono che non c’è un rapporto di causalità così diretto tra le loro scelte e quello che diventeranno, e questo li fa sentire più deboli. Per alcuni il pensiero del suicidio è quindi l’unico modo per sentire di avere il controllo su questa vita e sulla morte. I giovani hanno bisogno di rassicurazioni, anche se non ce lo chiedono direttamente.

 

I dati emersi dallo studio del Sisa sono in linea con quelli emersi da altri studi (Unicef e Pro Juventute) a livello svizzero e segnalano un aumento della sofferenza psichica nei giovani. La pandemia di certo non ha aiutato, ma darle tutta la responsabilità di questa esplosione non è riduttivo? Non c’è un altro problema di fondo?

 

Dare tutta la responsabilità alla pandemia è sbagliato, non solo riduttivo. È sbagliato perché la pandemia evidentemente è il macro-fenomeno che ha interessato tutti trasversalmente e quindi ci ha messo tutti sullo stesso livello, e nel metterci tutti sullo stesso livello è come se ci fossimo potuti mettere maggiormente a confronto notando di più le differenze. Prima della pandemia c’era chi si trovava in una situazione sub-clinica (non ancora diagnosticabile o diagnosticata), che veniva tenuta sotto controllo, direi “tamponata”, proprio dalla routine scolastica, dalle varie reti di sostegno, dalla famiglia, ma quando si è bloccato tutto il sistema è come se si fosse inceppata la capacità di difendersi dalle proprie stesse fragilità. Proprio in quel momento abbiamo avuto la percezione di una situazione clinica più preoccupante, in termini di quantità di casisti- che, ma soprattutto in termini di gravità della tipologia dei sintomi.

Gli anni prima la tendenza aumentava, ma anche qui dobbiamo vedere quanto questo aumento fosse dovuto a una lenta e progressiva possibilità di in- quadrare queste cose, di sentirsi meno soli e quindi di emergere, di raccontarsi. Si è data sempre più dignità a queste sofferenze che prima erano semplicemente delle etichette negative, le si è trasformate in qualcosa di più trasversale che può accadere, ma che in alcune situazioni può essere transitorio.

 

Quindi secondo lei non si tratta tanto di un’esplosione del fenomeno, ma più di una maggiore visibilità?

 

C’è una maggiore visibilità che chiama una maggiore comprensione, cioè: se io leggo di queste situazioni di sofferenza, se vedo un buon documentario, se sento la persona che parla della sua esperienza senza vergogna, cambio anche il mio modo di vedere queste situazioni. Questo significa “detabuizzare” la salute psichica, deistituzionalizzarla togliendole l’etichetta di “igiene mentale”, significa renderla alla pari della salute fisica e togliere quella dimensione di malattia.

Una cosa che mi ha colpito molto nello studio del Sisa è la preoccupazione di alcuni ragazzi e ragazze sul tema del costo delle terapie psicologiche. Evidentemente il costo di una terapia è un problema di cui tenere conto, poiché una terapia spesso non ha una traiettoria temporale ristretta e soprattutto coinvolgendo diversi attori, come per esempio la famiglia e la scuola, diventa una mole di lavoro non indifferente da retribuire. Dal primo luglio prossimo però il Consiglio federale ha deciso di inserire la psicoterapia somministrata da psicologi-psicoterapeuti nel catalogo delle prestazioni pagate dalle Casse Malati. Questa epocale svolta nel panorama dei servizi psicologici offerti dalla LaMal, è la risposta a questo genere di paura rispetto ai costi della salute e del benessere mentale. Si potrà dunque, a partire da questa estate, fare ricorso a un/una psicoterapeuta corrispondendo solo una parte dei costi. Per i minorenni in particolare questo si traduce in una possibilità anche preventiva senza eguali nel panorama europeo della salute mentale.

 

Dallo studio del Sisa emerge una percentuale piuttosto alta di giovani che dice di vivere un malessere scolastico (69%), malessere in correlazione con i sintomi depressivi...

 

Sì, verrebbe da dire “è colpa della scuola”, ma non è così. La scuola chiaramente è uno dei banchi di prova dove si costruisce l’identità, assieme alla famiglia, alle relazioni con i pari e al posto di lavoro. Sono quattro ambiti importanti e interdipendenti nei quali ci forgiamo e costruiamo chi siamo. Nelle risposte che hanno dato quei ragazzi e quelle ragazze mi è piaciuto tantissimo il loro grido d’allarme nel senso di dire “vogliamo poter mediare un po’ di più l’esperienza scolastica, non è che a noi non interessa studia- re, ma con otto compiti in classe in una settimana diventa difficile dire sto seguendo”, questo lo trovo costruttivo, intelligente e credo che la scuola non abbia grandi difficoltà a rispondere.

 

La scuola, come la società in generale, promuove la meritocrazia, con questa idea che se qualcuno fallisce è perché non si è impegnato o perché non è in grado di, senza tener conto di altre variabili che possono entrare in gioco. Questo emerge molto bene dallo studio del Sisa, ma anche da altri studi, nei quali è inoltre chiaro che una condizione socio-economica sfavorevole rappresenta un fattore di rischio per un malessere psichico. Come uscirne?

 

Sappiamo che la meritocrazia nella scuola esiste e chiaramente la meritocrazia si basa su qualcosa che è quantitativo: le note. Le note sono l’espressione, o dovrebbero esserlo, della partecipazione, dell’impegno e della costanza. Queste cose chiaramente partono dalla famiglia e più che dal salario dei genitori, molto dipende dall’esperienza pregressa che il genitore ha avuto con la scuola, dal rispetto che il genitore ha della scuola. Credo che invece di chiederci sempre cosa può fare la scuola per noi, dovremmo a volte porci anche la domanda di cosa possiamo fare noi per la scuola, affinché possa essere più agevole per i nostri figli.

Pubblicato il

19.05.2022 11:20
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