154 mila erano gli abitanti di Milano nel 1854 e poco meno dovevano essere nel 1813 quando il povero Giovannin Bongee, lavorant de früst in Contrada Santa Margherita, il giorno di Ognissanti, andò due passi più in là, alla Scala, «per vedé el Prometti (il Prometeo)» per il quale «el correva a la Scàra tütt Milan» (Carlo Porta). Sua moglie Barborin, sul loggione, durante lo spettacolo, avrebbe poi ricevuto sul culo da uno screanzato lampedee un rabbioso pizzicotto, origine, fra altri fatti, delle diverse Desgrazzi de Giovannin Bongee. Il teatro del Piermarini, inaugurato nel 1778, aveva allora poco più di trent’anni e la grande sala con sei ordini di palchi sovrapposti era esattamente la stessa di quella di oggi, accuratamente restaurata dall’architetto Elisabetta Fabbri. Ma oggi il Comune di Milano ha un milione e 256 mila abitanti, otto volte di più, senza contare la popolazione dell’hinterland e «i forastee de tante mia lontan» che vogliono andare anche loro almeno una volta alla Scala. Ed allora l’amministrazione del teatro ha deciso di moltiplicare per tre il numero possibile delle rappresentazioni, potenziando al massimo le prestazioni degli impianti scenici: palcoscenico, retropalchi, camerini, sale di prova, attrezzature tecniche, e così via. Ciò ha provocato l’innalzamento di una nuova torre scenica di 38 metri fuori terra, e l’emergere per alcuni piani al disopra degli edifici ottocenteschi di Via dei Filodrammatici di quello che a Milano chiamano l’ellissoide di Botta, autore del progetto delle parti nuove. In poche parole è stato inserito proprio nel cuore della città un motore potente e vistoso, attaccato al vecchio corpo teatrale della sala e del foyer, dalle dimensioni tutto sommato assai piccole e dal disegno finemente neo-classico. Per dirla con Davide Van de Sfroos in una recente intervista su altro soggetto: «Il rumore del progresso è più forte del silenzio del ricordo». Ma il risultato è brutto o bello? I volumi del nuovo sono eccessivi rispetto all’antico? Sinceramente, quando sono stato di recente a Milano, la cosa non mi ha scandalizzato. Quello che qualcuno ha chiamato «la madre dei sopralzi» è sicuramente grande e grosso, non dimostra grande amore per l’architettura neo-classica, ma è fatto con competenza e con cura. Del resto a Milano v’è una forte tradizione dell’addensamento. Basti ricordare la Torre Velasca del 1958, quando l’architetto Lodovico Barbiano di Belgioioso elevò nel bel mezzo di un isolato un edificio di quasi trenta piani, con una forma un po’ neo-gotica raggiungendo una densità impressionante. Erano gli anni della grande rinascita edilizia, quando Milano ricresceva sulle sue rovine. Di fronte a questi interventi ci si può chiedere se sia giusto insistere sempre, con sempre maggiore intensità, proprio nel cuore delle città, moltiplicando le densità, attirando maggior traffico, e sottraendo in certo qual modo vita, cultura e qualità alla ormai non più misurabile e tristissima città infinita. Ma questo è un altro discorso, molto arduo, di natura politica e territoriale. Tornando alla Scala debbo dire che sento una sorta di sottile disagio quando penso alla grande congruenza che il teatro del Piermarini aveva con la società descritta dal Porta (nobili e plebei) e ad una certa qual incongruenza che finisce per assumere lo stesso teatro rispetto alla società che popola oggi «la valle dei semafori dove crescono i telefonini» (sempre Van de Sfroos). Proprio dentro queste incongruenze si annidano le contraddizioni e i grandi interrogativi con cui deve fare i conti oggi l’architettura. Vi assicuro che non è facile.

Pubblicato il 

03.12.04

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