E non scrivere più di 300 pagine

Che il mercato abbia sensibilmente influenzato la produzione letteraria di questi ultimi dieci anni è cosa nota. Non è invece noto in che modo e in quali proporzioni lo scrittore che si affaccia in questo periodo sulla scena editoriale (o che non riesce ad affacciarsi sulla scena editoriale) calibri il proprio lavoro sulle esigenze di vendita. Nel chiuso del suo studiolo è certamente sensibile sia alla propria “chiamata” personale che agli imperativi categorici di un mercato ostile a ogni scrittura soverchiamente difficile, elaborata, sperimentale, o semplicemente non commerciale. Cioè sa che tra essere ed esserci, ormai, i confini si sono drammaticamente assottigliati, e che se pretende di essere letto deve anche fare i conti – non è un modo di dire – con qualcosa di esterno alla sua vocazione. Ma resta appunto il quesito: in che proporzioni, in che modo, un giovane scrittore di oggi subisce la suggestione del mercato? Fino a che punto è condizionato nella sua creatività dal contesto editoriale che lo circonda? La risposta – vi abbiamo già alluso – è impossibile. Certo rimane l’ovvia verità che nessuno scrittore o quasi, oggi, può pretendere di affacciarsi sul mercato – e di resisterci – senza mettere in conto la necessità di sdoppiarsi: in quello che è in quanto autore e in quello che tale autore deve promuovere. Alcuni editori inseriscono fra le clausole di contratto persino una voce che parrebbe denigratoria verso l’artista: impegnarsi, a libro pubblicato, a partecipare alla sua promozione in talk show televisivi e quant’altro. Orrore, al quale lo scrittore si piega tuttavia, ormai, con l’alibi dissimulato dell’elasticità. Cioè: «Se voglio esistere, devo accettare di fare un doppio lavoro». Turno di notte (quando scrive) e turno di giorno (quando va in giro a parlarne). Quando dorme, il disgraziato? I giovani scrittori di oggi dormono poco e scrivono ancora meno. Prolifici lo sono in minima parte. Va molto – cioè ha qualche chance di vendere – il “corto”, la storia “breve”, il racconto, la spy story, oppure il romanzo che non superi le 250 pagine. Tra gli agenti letterari c’è chi un giovane narratore non lo legge se supera le 300 pagine. E ancora più schiette, certe agenzie letterarie si fanno pagare un extra per la lettura oltre le suddette, impertinenti, 300 pagine. Dunque possiamo stare certi che anche nel chiuso del loro studiolo – prima di preparare il canovaccio del loro prossimo libro – gli scrittori sanno che cosa li aspetta. Qualche avventuriero della nostalgia potrebbe intraprendere una nuova “Recherche” o un nuovo “L’uomo senza qualità”, ma è più verosimile presumere che la maggior parte, prima ancora di mettere i polpastrelli sul computer, valuti attentamente se quella storia, quei personaggi, quei sentimenti che stanno sgorgando da lui, rischiano di debordare oltre le 300 pagine. E allora, chissà, decide di provare altri sentimenti o di sveltire un pochino quelli dei suoi personaggi. Interessante sapere quanti amori si concludono alla svelta, nella recente produzione italiana, non perché destinati all’epilogo ma perché di Anna Karenina non ne vuole più sapere nessuno. E allora chi scrive oggi, di quale autenticità può ancora andare fiero? Due categorie si impongono allo sguardo: quelli che hanno avuto la buona sorte di nascere“autenticamente” sintetici (come un Aldo Nove, per esempio) e quelli che hanno invece la sfiga di essere nati “autenticamente” di ampio respiro (innominabili, poiché nessuno li pubblica). Rarissimi, fra queste due categorie, i privilegiati che hanno un ampio respiro “vendibile”: Alessandro Barbero, la Mazzucco, ecc... E gli altri? Gli altri non fanno (ancora) la storia della letteratura italiana.Nésappiamo quanti sono né quanti saranno una volta (forse) recuperati al mercato grazie a un libricino meno ampio di quelli mai pubblicati. Sono una schiera, che immaginiamo piuttosto fitta, di creativi delle catacombe: giovani uomini e giovani donne che magari stanno sfidando il complesso dei luoghi comuni su cui è fondata la globalizzazione culturale per proporci un’inedita, straordinaria, visione della vita. Ma... ahimé!... oltre le 350 pagine essi ancora si dibattono nell’ombra per scremare e riscremare ciò che ha editorialmente forma e armonia solo se scremato (la letteratura e il latte hanno questo in comune). Lavorano, insistono, penano. Poi si convincono che un giorno le cose andranno meglio, che verrà abilitata la loro “autenticità”: che il Citati di turno dirà «Ma perbacco, c’è questo nostro proustino nostrano e siamo andati avanti con le amenità della Tamaro per tutti questi anni? Oh no no no! È ora che gli si dia uno spazio!». E voilà, allora – sulle soglie del 2050 – avverrà il miracolo: dalle catacombe uscirà un capolavoro di 600 pagine. Tutti lo osanneranno. Che bravo! Che bello! Tutti lo compreranno! Tutti lo leggeranno! E nessuno si ricorderà che quel libro era già pronto da cinquant’anni... Come va la letteratura d’oggi, dunque? Benino. In attesa che del libro si capisca che: 1) non è e non può essere solo intrattenimento; 2) è e deve essere un “buon” libro anche se per leggerlo non basta il tempo delle vacanze a Rimini; 3) non riguarda soltanto tematiche legate alla cronaca recente ma può prendersi il lusso di parlare – che ne so – di faccende come l’esistenza, il tempo, la morale e altre detronizzate tematiche così invise agli scaffali decrescenzianidella Upim...

Pubblicato il

17.10.2003 05:30
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