È mutazione antropologica: ora possiamo amarci a distanza

Oggi possiamo fare pressoché tutto tenendoci a distanza. Le tecnologie della comunicazione rendono obsoleta l’esperienza della vicinanza. Lavoro, sorveglianza, amicizia, e persino scoperta dei partner, richiedono sempre meno contatto. In fondo, questa vertiginosa implicazione fra finestre virtuali a vastissima lontananza, questa diffrazione della realtà, risponde in modo perfettamente coerente a un’esigenza di immunizzazione legata alla formazione dello Stato moderno ma fattasi anche più concreta, e contraddittoria, con la formazione della moderna metropoli. Per sopportare l’incremento di stimoli e l’intensificazione della vita nervosa che caratterizza queste ultime, e che segna una fondamentale differenza rispetto agli ambienti premoderni, il soggetto è stato chiamato a compiere una sorta di mutazione antropologica, caratterizzata da un’ipertrofia dell’intelletto calcolatore, e da un parallela recessione dell’emotività e della sensibilità. L’economia, dominata dal calcolo quantitativo di astratti valori di scambio che agiscono come “equivalenti generali”, a partire da qui ha prodotto una soggettività analogamente astratta e indifferente. Nel mondo globale smaterializzato, ora ogni attrito fra corpi reali è incidente, e in ogni ambito si agita lo spettro del contagio. La prossimità è avvertita innanzitutto e per lo più come pericolo, come rischio e minaccia. La circolazione del dono (munus) che definisce la comunità (communitas) è proscritta in nome di una chiusura immunitaria (immunitas, privazione di munus), identificata dal biologico, al tecnologico al politico con la condizione stessa della salute, ma in realtà comportante anche la perdita della possibilità dell’esperienza e del mutamento.


Alle infinite sfumature delle relazioni reali con gli altri, è subentrato l’automatismo della reazione di paura, la sostituzione immediata della conoscenza e dell’incontro con gli schemi fobici del pregiudizio e le strategie spaziali di evitamento ed evacuazione. L’alterità non deve contaminare il centro, e viene progettualmente spinta ben oltre le periferie, nelle terre di nessuno delle nuove giungle. In ogni ambito si moltiplicano i confini e si raffinano le procedure di identificazione, comprese quelle in cui in definitiva tendono a risolversi i mezzi di comunicazione, raccogliendo miliardi di dati. Nella difesa aggressiva dei confini statali territoriali, difesa che esprime la sostanziale inamovibilità delle divisioni economiche, si confondono, in maniera ormai di nuovo del tutto esplicita, legalità e pregiudizio, offrendo, ben oltre i confini dello stato di diritto, una via di sfogo al sadismo che corrisponde alle politiche autoritarie. Più si alimentano le paure, più si rafforza la confusione fra Stato e sistema immunitario, indicando nel rafforzamento parossistico e patogeno di questo, lo scopo stesso della politica. Ma questo scopo capovolto costituisce una minaccia mortale per la libertà critica: un sistema immunitario ipertrofico è già sempre pronto a reagire prescindendo da ogni cognizione, a mettere al bando e a escludere automaticamente ogni diverso; e certo è già pronto a colpire chi ancora solo osa concepire la critica di questa sovranità come la premessa di un’altra politica. La tentazione autoritaria è già sul punto di esplodere, dagli Usa all’Europa, come malattia autoimmunitaria. Come ancora una volta insegnano da Berkeley, l’opposizione, a cui il potere promette ostracismi e tagli radicali, non può più perdere tempo.

Pubblicato il

08.02.2017 20:28
Nicola Emery
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