È l'economia, stupido!

Se non avessero raggiunto un accordo venerdì scorso, il rinnovo del contratto tra le maggiori case di produzione hollywoodiane e gli 11'500 sceneggiatori, affiancati dalle decine di migliaia di attori che popolano la fabbrica dei sogni, avrebbe dato avvio ad uno sciopero costosissimo per l’intera economia californiana, già in crisi per il crollo della Silicon Valley e per la "crisi da privatizzazione" del settore energetico (500 milioni di dollari per ogni settimana di sciopero, 81'900 posti di lavoro persi). In superficie, la tensione tra le parti riguardava il pagamento dei "residuals", le tariffe legate alle repliche di film o lavori in televisione, alla loro distribuzione in videocassetta o in Dvd, alla vendita dei diritti all’estero. Gli sceneggiatori chiedevano 100 milioni, le "majors" 40, una bazzecola se si tiene conto del costo medio di un solo grande lungometraggio (85 milioni di dollari). Il nuovo contratto prevede il versamento di 44 milioni agli scrittori. Dato che nel 1999 erano stati versati 177,8 milioni di "residuals", si può solo concludere che il contratto è una fregatura. Ma dietro la vertenza salariale si agitano altre spinte alla ridefinizione dei rapporti di potere che meritano attenzione, dato che la produzione cinematografica è considerata dai teorici dell’organizzazione del lavoro post-fordista come un modello da imitare. In primo luogo il moltiplicarsi dei canali e delle tecnologie per l’offerta di contenuto: oggi anche un film di successo incassa solo il 40% delle sue entrate complessive al botteghino, senza contare l’ingresso sulla scena di Internet. In secondo luogo ci sono i crescenti costi del settore: benché le attività cinematografiche sono ormai solo una componente degli enormi business multimediali, per cui i colossi emersi dalle fusioni tra cinema, televisione e Internet (Aol Time Warner, Viacom, Vivendi) possono permettersi di arrestare senza troppi danni la produzione in caso di scioperi ricorrendo a show-realtà, senza testi né attori, o a programmi giornalistici, resta il fatto che una paralisi del settore avrebbe inferto un duro colpo all’immagine della già malconcia new economy americana. Come dicono gli americani, "It’s the economy, stupid"! Gli sceneggiatori sostengono di essere sempre più emarginati da qualunque ruolo nel prodotto finale, una protesta antica ma che sta acquistando nuova urgenza in un periodo in cui l’assorbimento degli "studios" nelle conglomerate multimediali comporta l’arrivo ai vertici direzionali di persone digiune di esperienza cinematografica ma vicine alla figura di manager aziendali. Una situazione che ha privilegiato i registi a scapito degli sceneggiatori, i veri produttori di contenuti. Come scrive Naomi Klein nel suo NoLogo (appena pubblicato da Baldini & Castoldi), nell’economia globale la valorizzazione del marchio (la politica del branding) presuppone la privatizzazione (grazie ai "cool hunters", studiosi delle sottoculture) della cultura della strada, della stessa "estetica" della rivolta. Nella nuova economia diventa necessario sviluppare forme di lotta sul terreno del simbolico, là dove il sapere sociale viene rubato ai suoi produttori.

Pubblicato il

11.05.2001 12:30
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