Terminato il turno di notte in un cantiere a Padova, all’alba Fouad era già in viaggio verso Verona. Non ne aveva nessuna voglia, ma non poteva rifiutare la convocazione d’urgenza del capocantiere. Devi venire subito qua, gli aveva intimato. Dopo una rapida doccia, si fece accompagnare da un collega a Verona. «Fouad, cosa hai combinato?» gli chiede il capo quando scende dall’auto. Sorpreso, Fouad non sa di cosa parli. «Ti stanno cercando i Rossi. Vogliono parlarti». Il capocantiere, che chiameremo Marco, è agitato. Alessandro ed Edoardo Rossi sono due fratelli proprietari di Generali Costruzioni Ferroviarie (GCF), un colosso italiano della tecnica ferroviaria che negli ultimi quindici anni si è aggiudicato da solo o consorziato la ragguardevole somma di 240 appalti per 9,2 miliardi di euro in Italia, come rivelato dalla trasmissione Rai Report. Il capocantiere Marco è preoccupato perché la sua ditta, la Commercial Contact Rail di Vincenzo Giardino, lavora quasi sempre in subappalto per GCF. Compromettere i rapporti coi fratelli Rossi per colpa di Fouad non sarebbe una bella cosa. Marco carica l’operaio in auto in direzione di Lecco, dove ad aspettarli troveranno una vecchia conoscenza di Fouad. È Roberto Garilli, un capocantiere di GCF per cui Fouad aveva lavorato in passato nella galleria sotto il Monte Ceneri nel tratto di AlpTransit che collega Bellinzona a Lugano. Sostenuti dal sindacato Unia, nel 2018 Fouad e diversi operai denunciarono una lunga lista di abusi alla giustizia elvetica avvenuti in quel cantiere. Giornate lavorative infinite (fino a 24 ore consecutive), lavoro ininterrotto per una ventina di giorni, richieste a posteriori di restituzione dei soldi guadagnati in Svizzera, assenza di permessi per guidare macchinari e indizi di caporalato, erano le accuse principali. Il procuratore Andrea Gianini aprì l’inchiesta nel 2019, dopo che la trasmissione Falò della Rsi rese pubblica la denuncia dei lavoratori, evidenziando numerosi indizi di quanto sostenuto dagli operai e portando alla luce un caso simile avvenuto in un cantiere danese in cui era attiva GCF. IL TESTIMONE GIARDINO Ma torniamo a Lecco, dove stando al racconto di Fouad, Roberto voleva che andasse immediatamente in Svizzera a ritirare la denuncia contro GCF. Se non lo avesse fatto, Roberto minaccia Fouad che non avrebbe mai più lavorato nella manutenzione ferroviaria in Italia. Fouad rifiuta e, con sua grande sorpresa, giorni dopo il capocantiere Marco gli comunica di volerlo ugualmente tenere alle dipendenze della subappaltatrice di GCF. Ma Fouad, visti gli intensi rapporti di Commercial Contact con GCF, non si fida e preferisce interrompere il rapporto di lavoro. La vicenda, Fouad la raccontò al procuratore Gianini nel settembre 2019. Nel racconto, non fece mai il nome di Giardino, indicando solo l’azienda per cui lavorava a Padova. A distanza di due mesi dalla deposizione di Fouad, il nome di Vincenzo Giardino nell’inchiesta ticinese lo farà l’avvocato Emanuele Stauffer, legale dei Rossi, producendo una sua lettera. In veste di titolare della Commercial Contact Rail, Giardino afferma di non aver licenziato Fouad per i problemi con la GCF, ma di avergli anzi proposto di continuare il rapporto lavorativo. L’avvocato Stauffer segnala inoltre al procuratore Gianini la disponibilità di Giardino a testimoniare davanti a lui quanto scritto nella lettera. Il procuratore ticinese non lo chiamerà mai. A chiamare Vincenzo Giardino pochi mesi dopo ci penserà invece il pubblico ministero Bruna Albertini della Direzione distrettuale Antimafia di Milano. GCF NEL MIRINO DELL’ANTIMAFIA Nell’inchiesta “Doppio Binario” coordinata dall’antimafia milanese, si imputa ai fratelli Rossi di GCF e altre imprese di costruzione ferroviaria, di aver infiltrato la criminalità organizzata subappaltando per decenni lavori a imprese legate alle famiglie Aloisio e Giardino, indicate dagli inquirenti come referenti della ’ndrangheta crotonese. Tra le imprese, figura anche la Commercial Contact di Vincenzo Giardino, l’azienda per cui Fouad lavorava a Padova. I quattro fratelli Aloisio, avendo scelto il rito abbreviato, sono stati condannati lo scorso gennaio in prima istanza complessivamente ad oltre 16 anni per numerosi reati, tra cui il 416 bis, articolo che configura l’associazione mafiosa. I membri della famiglia Giardino, Vincenzo compreso, sono invece in attesa della decisione della Giudice delle udienze preliminari sulla richiesta di arresto e rinvio a giudizio promosse dalla pm Antimafia Albertini. Nell’atto d’accusa, convalidato parzialmente dai giudici nella prima sentenza in cui furono condannati gli Aloisio, nella parte relativa a Vincenzo Giardino, la pm Albertini lo accusa di aver impiegato manodopera “in turni lavorativi estenuanti e a condizioni che di volta in volta venivano stabilite non da accordi contrattuali ma unilateralmente dai datori di lavori approfittando dello stato di bisogno in cui gli stessi versavano e della condizione di assoggettamento dovuta alla fama criminale stante la contiguità ed appartenenza alla famiglia mafiosa Nicoscia-Arena-Capicchiano di Isola Capo Rizzuto”. Pur ravvisando delle similitudini con la denuncia degli operai impiegati in Ticino, va precisato che questi ultimi non lavorassero per conto dei Giardino in subappalto con GCF, ma direttamente per l’impresa dei fratelli Rossi. Le accuse di sfruttamento della magistratura italiana si limitano a quanto accaduto nel territorio italiano. Va detto pure che le medesime accuse di sfruttamento sono state riscontrate in Danimarca, dove GCF ha pagato multe e risarcimenti. Per quel che è successo in terra elvetica, è compito della Procura ticinese accertare i fatti, chiudendo finalmente un’inchiesta che si trascina da quasi cinque anni. Di tutt’altra velocità di crociera, la magistratura italiana. Come detto, alcuni imputati sono già stati condannati in prima istanza, i Giardino a breve conosceranno il loro destino al pari dei fratelli Rossi, per cui l’Antimafia ha chiesto pure l’arresto. Inoltre, alla GCF e le altre imprese di manutenzione ferroviaria coinvolte nell’inchiesta, sono stati sequestrati oltre dieci milioni di euro per presunti reati di natura fiscale. I fratelli Rossi e GCF contestano tutte le accuse, sia in Svizzera che in Italia. In Danimarca invece pagarono 2,2 milioni di euro. In Svizzera, Unia stima 3,5 milioni di franchi l’importo dovuto agli operai. L'ESASPERANTE LENTEZZA DELLA GIUSTIZIA TICINESE Cinque mesi per salire le scale interne del Palazzo di Giustizia. È il tempo impiegato dalla denuncia in Polizia ad arrivare sul tavolo della Procura. Fouad e colleghi verbalizzarono la querela agli agenti della giudiziaria nell’ottobre 2018, ma l’inchiesta fu formalmente aperta dal procuratore Andrea Gianini solo nell’aprile 2019 quando Falò della Rsi rese pubblica la denuncia, suscitando numerose reazioni sulla stampa svizzerotedesca nei giorni seguenti. L’inchiesta giornalistica mise in evidenza diversi indizi sulla possibile esistenza di un modus operandi utilizzato da GCF in altri cantieri. Falò rivelò che in Danimarca GCF era stata accusata in tre cantieri per gravi abusi sugli orari di lavoro dal sindacato danese 3F. Alla fine, GCF pagò in totale 2,2 milioni di euro e una multa per infrazione alla legge sul lavoro. Il sindacato danese denunciò inoltre pubblicamente forti sospetti di presenza della criminalità organizzata. Sui cantieri danesi lavoravano imprese collegate alla famiglia Giardino in subappalto di GCF. La denuncia danese rimbalzò sui media italiani nell’ottobre 2016, dove per la prima volta sulla stampa nazionale si parlò dei Giardino quali referenti della ’ndrangheta. L’inchiesta ticinese, partita lenta fin dalla denuncia in Polizia, proseguì altrettanto lentamente in Procura. Dall’avvio dell’inchiesta, passarono settimane preziose prima che la documentazione di eventuali prove fosse sequestrata. Una perquisizione preannunciata con largo anticipo dalla Procura via comunicato stampa. «Una cosa mai vista, poiché dà il tempo di far sparire le eventuali prove» commentò alla Rsi Gianluca Padlina, già presidente dell’Ordine degli avvocati ticinesi. Dall’inizio dell’inchiesta, GCF nega le accuse operaie. A sua difesa, invoca le giornaliere aziendali dove gli orari riportati spaccano il minuto esatto, otto ore di lavoro precise. Mai uno sgarro negli anni di cantiere. Una cosa mai vista da chi conosce il lavoro in galleria. Gli orari delle giornaliere GCF cozzano però con altri dati, quelli dei badge necessari affinché in caso d’incidente i soccorsi sappiano chi si trova all’interno e in quale punto esatto sia. L’ispettorato del lavoro ha analizzato quei dati, rilevando una lunga la lista di “errori”. Se la presenza in galleria di un operaio superava le dodici ore, il sistema allertava automaticamente. La frequenza con cui l’allarme scattava, avvalorerebbe la tesi degli operai sui turni di lavoro massacranti. Una tesi confermata da due testimoni con dei ruoli nella sicurezza ascoltati dagli inquirenti. Testimoni credibili poiché, non avanzando pretese di risarcimento, non hanno interessi economici nell’accusare GCF. Il secondo servizio di Falò del 2022 evidenziò altre lacune nell’inchiesta ticinese. Ad oggi il capocantiere Roberto Garilli non è mai stato interrogato e i registri informatici della mensa, utili nel determinare i tempi di lavoro degli operai, mai acquisiti. Alcuni esempi di un’inchiesta partita male e che rischia di finire peggio. Di certo, già ora più lunga degli anni di cantiere. |