Al tempo in cui «il» partito della sinistra italiana si chiamava comunista e raccoglieva il consenso di oltre un terzo degli elettori, la sezione operaia di Mirafiori, a Torino, aveva più di duemila iscritti. Era qui che i giornalisti andavano a sondare gli umori del Pci, a seguire i dibattiti congressuali per verificare la consistenza e gli orientamenti dell’anima di sinistra, classista, del partito. Oggi l’erede principale del Pci vola basso, non solo in termini numerici e di consenso e i Ds non vanno oltre un misero 16per cento dei voti alle elezioni politiche nazionali. In queste settimane, a Mirafiori si sta combattendo una difficile battaglia per difendere l’occupazione e i diritti dei lavoratori metalmeccanici, una lotta guidata dalla Fiom-Cgil, mentre Uilm e Fim sembrano risucchiate dall’egemonia padronale e si muovono con politiche subalterne ai diktat della famiglia Agnelli e del socio di maggioranza a stelle e strisce, la General Motors. Manovre elettorali della coppia Fassino-D’Alema Ebbene, per far vincere il congresso diessino alla coppia Fassino-D’Alema è stato sufficiente iscrivere al partito i militanti della Uilm in blocco, «con un unico assegno li hanno comprati tutti per sconfiggere la mozione di sinistra di Giovanni Berlinguer che qui era nettamente maggioritaria», ci raccontano i vecchi militanti operai di fabbrica. In parole povere, le truppe cammellate della Uilm – appena 150 lavoratori – sono bastate a ribaltare la maggioranza congressuale. È facile prevedere un crescente distacco dal partito dei militanti diessini della Fiom nella più grande fabbrica italiana: «Viene meno, prima ancora dell’identità, il senso di un partito che ha gettato la bandiera del conflitto di classe per ridursi a un comitato elettorale, a un presidio istituzionale. Un partito – si rammarica un dirigente diessino della Fiom di Mirafiori – che non combatte la globalizzazione liberista ma pretende di moderarne gli effetti sociali, un partito che non capisce e non condivide le battaglie del Genoa social forum, un partito che vota con la destra a favore della guerra americana, purtroppo in coerenza con la scelta di due anni fa di D’Alema di firmare le bombe umanitarie contro la Jugoslavia». La nuova parola d’ordine: modernizzazione Se la parola d’ordine del Pci era il cambiamento, quella dei Ds è la modernizzazione. Il congresso nazionale che inizierà il 16 novembre a Pesaro (mentre a Roma decine di migliaia di metalmeccanici della Fiom manifesteranno a Roma per il contratto, con l’adesione convinta del movimento no global: ma gli operai, per gli eredi del Pci, sono forse merce avariata?) sarà vinto dalla mozione di Piero Fassino, torinese, già operaista prima della svolta della Bolognina in cui il Pci cambiò nome, politiche, interlocutori e base sociale di riferimento. Ministro del commercio con l’estero nel governo dell’Ulivo, Fassino gestì i difficili rapporti con la Turchia durante l’affare Ocalan, che si concluse con la cacciata dall’Italia del leader kurdo e la sua conseguente cattura in Kenya: prima dei diritti umani vengono gli accordi commerciali, a cui tutto può essere piegato. Poi Fassino divenne ministro della giustizia. La sua realpolitik e la fedeltà a Massimo D’Alema l’hanno portato al vertice del partito. Un partito che a stragrande maggioranza ha deciso di annullare ogni differenza rispetto alla destra berlusconiana, fascista e leghista votando la partecipazione diretta dell’Italia alla guerra santa contro l’Afghanistan. Un partito incapace di fare opposizione, sempre alla ricerca di accordi bipartisan con la Casa delle libertà, sulle orme di quel Massimo D’Alema che per difendere fino all’ultimo l’inciucio con il cavaliere di Arcore (la Bicamerale) rinunciò a varare una qualsivoglia legge contro il conflitto di interessi. Gli occhi lucidi di Pietro Ingrao È Pietro Ingrao, uno dei padri storici del Pci, tra le figure più amate, a raffreddare le speranze di chi cerca ancora nei Diesse una qualche continuità con la storia della sinistra italiana («Dì qualcosa di sinistra», implorava in un suo famoso film il regista Nanni Moretti): «Questa formazione politica, i Ds, da tempo non è sinistra. È una forza di centro. Nei cruciali anni tra l’89 e il ’90 – ai tempi della Bolognina per intenderci – non avvenne solo un mutamento di nome, ma la fine di un soggetto politico. Io faticai parecchio a persuadermene – dice Ingrao – ed esitai a lungo a uscire da quel partito, proprio perché non mi rassegnavo. E speravo ci fosse ancora uno spazio di discussione. Me ne andai quando mi resi conto che non c’era e che quel Pds non era più un partito di sinistra, ma una formazione politica di centro, per stare alla geometria politica in uso. Rimbrottarla perché non si comporta come un partito di sinistra mi sembra francamente un nominalismo, un non guardare le cose in faccia». Fassino raccoglierà più del 60 per cento dei voti congressuali e tenterà di governare da solo il 100 per cento del partito, confermando la carica di presidente per il grande burattinaio Massimo D’Alema. La base del suo consenso è depositata nell’ultimo silos di voti diessini che è l’Emilia, in gran parte dell’apparato nazionale, tra gli amministratori locali e gli orfani del governo dell’Ulivo. Al fianco di Fassino c’è Luciano Violante, capogruppo parlamentare che non smette di stupire: è sua la riabilitazione dei «ragazzi di Salò» perché anche i fascisti e i repubblichini avevano un’anima e dei valori, è sua la proposta (poi bocciata da gran parte dell’Ulivo), di partecipare alla manifestazione a favore degli Usa promossa per il 10 novembre da Berlusconi e dai suoi ascari. Il «correntone» senza una propria identità Quel che ci si domanda è piuttosto: come mai lo schieramento opposto a Fassino, guidato da un uomo retto e di sinistra come Giovanni Berlinguer, che vede in campo dirigenti come il sindaco di Roma Walter Veltroni, il segretario della Cgil Sergio Cofferati, il presidente della Campania Antonio Bassolino, l’intera sinistra del partito, l’ex ministro del lavoro Salvi, Giovanna Melandri, Pietro Folena e financo il segretario della svolta postcomunista Achille Occhetto, stenta a superare il 30 per cento dei consensi? Per l’eterogeneità dello schieramento, a cui aderiscono pacifisti e guerrafondai, clintoniani e anticapitalisti, ecologisti e palazzinari? Anche per questo, il cosiddetto «correntone» non ha un’identità propria, e la mozione congressuale di minoranza non si discosta molto da quella di Fassino. Forse anche perché il corpo del partito è mutato, è diventato realista e ha in testa un unico obiettivo, quello del gruppo dirigente: tornare al governo. Ma com’è possibile, senza mettere in campo una vera opposizione a Berlusconi, senza elaborare una proposta politica realmente alternativa a quella della destra? La terza mozione congressuale presentata dal liberal Morando è poco meno di una sponda di destra al progetto della maggioranza dalemian-fassiniana. Raccoglie un 3-4 per cento dei consensi interni tra i più convinti modernizzatori dell’Italia, globalizzatori cum judicio, liquidatori di qualsiasi sedimento, non comunista ma socialdemocratico, nei Ds. Con il XX secolo, per loro, si è conclusa definitivamente la storia del movimento operaio, il conflitto capitale-lavoro non ha più ragion d’essere e la parola d’ordine è la flessibilità. Alla resa dei conti congressuali non è escluso che Morando possa venir risucchiato nella maggioranza fassiniana. Appuntamento al 16, dunque, con i Ds in tuta mimetica orgogliosi di aver «portato l’Italia tra le nazioni di serie A», grazie alla guerra del Kosovo quand’erano al governo e a quella all’Afghanistan sostenendo la politica estera del governo Berlusconi. Ma l’immagine più concreta di un partito in via di estinzione (almeno per come è stato pensato e rappresentato finora) si avrà il 10 novembre a Roma: in piazza del Popolo, con Berlusconi, Bossi e Fini che sventolano le bandiere americane ci saranno anche alcuni dirigenti diessini; altri diessini, alla stessa ora, saranno con il popolo di Genova e Porto Alegre a manifestare davanti alla sede della Fao contro la guerra e il Wto. Ma sono i secondi, purtroppo, a non avere un futuro nel partito che nascerà dalla ceneri dei Ds. Potranno cercare un futuro altrove, in Rifondazione comunista, o più probabilmente si scioglieranno nel movimento. Quello di Genova, che ha sedimentato una forte opposizione sociale, e quello dei metalmeccanici che manifesta per le vie di Roma proprio mentre a Pesaro inizia l’ultimo atto della commedia diessina.

Pubblicato il 

09.11.01

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato