«Dovremmo chiederci se dallo stato di diritto non stiamo scivolando verso uno stato autoritario

In un libro la scrittrice italiana Enrica Perucchietti denuncia le derive in materia di sorveglianza dei cittadini durante l'emergenza Coronavrius. La testimonianza di un ticinese a Roma durante il lockdown

«In lontananza un elicottero volava a bassa quota sui tetti, si librava un istante come un moscone, poi sfrecciava via disegnando una curva. Era la pattuglia della polizia, che spiava nelle finestre della gente. Ma le pattuglie non avevano molta importanza. Solo la Psicopolizia contava». George Orwell, 1984. A Enrica Perucchietti, la giornalista e scrittrice torinese, che abbiamo intervistato per l’edizione cartacea del giornale in edicola il 5 giugno, piace confrontare la situazione descritta nel libro “1984” da George Orwell con ciò venutasi a creare in questi mesi in piena emergenza sanitaria con la questione del monitoraggio dei contagiati e dei loro contatti attraverso i canali usati in Italia della geolocalizzazione, del dispiegamento dell’esercito nelle strade, utilizzo dei droni per spiare chi esce di casa o si riunisce provocando assembramenti e la creazione di gruppi sui social per segnalare i presunti trasgressori. «Con il Parlamento chiuso, lo stato di eccezione ha aperto un’area grigia che legittima il ricorso alla sorveglianza tecnologica, creando un pericoloso precedente». Per la filosofa torinese, si rischia di andare verso una deriva autoritaria. Secondo Perucchietti, c’è un altro aspetto che dovrebbe preoccuparci, ossia la reazione impulsiva, isterica e a tratti fanatica, avuta di fronte all’emergenza coronavirus: «Stiamo infatti adottando quegli stessi atteggiamenti che Orwell descriveva in 1984: ci stiamo trasformando in psicopoliziotti, delatori pronti a intraprendere la caccia all’untore e ad attaccare con violenza inaudita e urlo purificatore (che ricorda i due minuti di odio orwelliani) chiunque non rispetti secondo noi i provvedimenti o contro coloro che osano dissentire».


La giornalista, che sull’argomento ha scritto un ebook  (“Coronavirus, il nemico invisibile. La minaccia globale, il paradigma della paura e la militarizzazione del paese”, Uno Editori), avverte: «La politica sta alimentando questa deriva a tratti paternalistica e a tratti fanatica, invitando non tanto al rispetto delle regole, che è sacrosanto, quanto alla cieca obbedienza: dovremmo chiederci se dallo stato di diritto non stiamo scivolando verso uno stato autoritario».

 

La testimonianza

Qui di seguito riportiamo la testimonianza di un ticinese che ai primi di marzo 2020 si trovava a Roma per motivi personali e in Italia ha vissuto il periodo del lockdown e il clima sociale che si respirava.


L’8 marzo, si sa, è una data simbolica nella lotta per i diritti delle donne, e il nostro testimone vede che i cortei dell’associazione “Non una di meno” sono annullati. Non si è ancora in fase lockdown, ma la polizia si sente legittimata, o è legittimata, a fare pressione per vietarli. Sta di fatto che l’8 di marzo a Roma si inizia ad assistere a una presenza rilevante di forze armate in giro per la città. Da lì a qualche giorno la presenza di carabinieri, poliziotti, uomini dell’esercito, vigili urbani diventerà sempre più massiccia: eccole, le forze dell’ordine lì a presidiare ogni quartiere supportati anche da droni.
Metti fuori il naso dalla porta di casa ed ecco avvicinarti a te un uomo in divisa: “Che fai? Dove vai? Ce l’hai l’autocertificazione? Dammi il tuo documento d’identità, che prendo i dati”. Roma, città eterna, militarizzata? «Un contesto diverso da quello degli stati militarizzati per far fronte a rivolte o ai tentativi di golpe che abbiamo imparato a conoscere nella storia. Posso però dire che la presenza delle forze armate era ovunque, asfissiante e rendeva difficile ogni spostamento: addirittura passare da un quartiere all’altro si trasformava in un’impresa».


Che sensazione trasmetteva la città militarizzata?
La presenza in strada di poliziotti e carabinieri, che ti potevano fermare in qualsiasi momento e multare salatamente per delle inezie, innescava un meccanismo di paura, di difesa anche se non avevi nulla da nascondere. Era un modo per scoraggiare a sfidare le uscite, perché potevano fermarti e con scuse assurde infliggerti multe che partivano da 300 euro. Ci sono state persone sanzionate con pene pecuniarie per essere uscite con il cane o essere andate a comprare le sigarette! E, questo, nonostante avessero rispettato le distanze sociali e le misure di protezione, indossando la mascherina. Al momento del “fermo”, dovevi spiegare per filo e per segno il perché dei tuoi spostamenti e se il motivo non era considerato valido, oltre alla multa, potevi essere accusato di falsità e truffa, che sono reati. In Italia, a differenza che in Svizzera, le mascherine erano obbligatorie per tutti e in ogni contesto: ora mi sembra una misura più che legittima su di un bus o in un supermercato, ma che senso ha per chi corre isolato? Mi chiedo che cosa resterà a livello mentale di questa esperienza e che cosa cambierà nelle percezioni e nei modi di vivere delle persone che hanno subito e vissuto nuove forme di paura e di controllo.


I cittadini non hanno protestato? 
In generale è stato tutto assai contenuto. A tratti surreale. Ho osservato una città come Roma, una metropoli, deserta la cui unica presenza sembrava quella dei gabbiani che volavano ovunque. Nei quartieri ci sono comunque stati vari tentativi spontanei di opporsi alle misure. Il 25 aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo, si è svolto un presidio al Pigneto di varie ore, dove sono state denunciate le situazioni considerate fuori misura. Da registrare, in particolare, varie azioni per solidarizzare con le proteste dei detenuti di Rebibbia: all’interno del carcere erano stati vietati i colloqui e i detenuti in tutta Italia hanno fatto delle rivolte opponendosi a tali misure, mentre all’esterno i familiari protestavano, chiedendo amnistia e indulto per i propri congiunti causa rischio contagi. I presidi di solidarietà sono stati però sistematicamente repressi, così come le rivolte in carcere con oltre 20 morti – non per Covid! – nelle carceri di tutta Italia.


Lei perché non è rientrato in Svizzera?
Visto che anche in Ticino tutto era chiuso, ho deciso di fermarmi a Roma vivendo esperienze interessanti. L’autorganizzazione nei quartieri popolari relativa alla distribuzione di beni di prima necessità, non in maniera assistenziale ma come progetto di lotta e di condivisione tra gli abitanti del quartiere (italiani e migranti), in quanto il problema dell’approvvigionamento in alcune zone era tangibile. O la creazione di radio di quartiere in streaming con una contro narrazione rispetto ai media ufficiali sia sul virus, sulla socialità e sulle modalità organizzative. La paura ha certamente bloccato, ma c’è chi ha cercato di fare sentire una voce diversa. Era evidente che le misure prese non toccavano tutte e tutti in maniera uguale e che lo slogan #iorestoacasa risultava arbitrario e discriminatorio tra chi una non ce l’aveva, non poteva più pagare l’affitto o era costretto a condividere spazi ristrettissimi. E questo toccava in maniera particolare le classi popolari e precarie, ma anche e soprattutto la popolazione migrante.


Le misure come erano vissute dalla popolazione?
Si poteva uscire di casa solo per questioni lavorative, mediche o familiari e le persone si inventavano di tutto di più, se avevano una necessità che non rientrava in queste categorie. In auto poteva starci solo il conducente, pena la confisca del mezzo stesso, e c’è chi, in due a bordo, si è inventato la necessità di cercare una farmacia per cercare la pillola del giorno dopo….


Un altro momento particolare che ha vissuto?
 La morte del compagno Salvatore Ricciardi, voce di Radio Onda Rossa. Un’ottantina di persone si è radunata per l’ultimo saluto davanti al bar Marani, indossando le mascherine e tenendo le distanze sociali: la polizia si è fiondata con elicotteri, droni, idranti e hanno identificato tutti, invocando le norme antiassembramento. Questo ti faceva capire come ogni circostanza fosse ghiotta, in nome del coronavirus, per controllare.


Il rientro in Svizzera come è stato?
Non proprio evidente. A Milano quando sono sceso dal treno, ad esempio, mi hanno chiesto i documenti d’identità e me li hanno fotografati. Ho chiesto perché: perché è così... Non ho sentito nessun altro passeggero porre quella che per me era una legittima domanda. Poi il rientro in Ticino. Arrivare fino a Como, tra treni soppressi e autobus che non raggiungevano il confine non è stato scontato, ma una volta varcato il confine a piedi la differenza era tangibile. All’inizio non è stato facile abituarsi a questa maggiore possibilità di movimento e al non uso sistematico della mascherina.

 

Pubblicato il

03.06.2020 17:28
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