Capita ancora (sempre più raramente ma ancora capita) che qualcuno, malgrado non faccia più il sindacalista da diversi anni, venga a trovarmi e mi racconti le sue magagne ed i suoi dispiaceri professionali. Recentemente ho sentito una storia ordinaria di licenziamento. Ho incontrato una venditrice, che mi ha raccontato la sua ultima esperienza professionale. O, meglio, la fine della sua ultima attività. E per una volta si tratta di una storia a “lieto fine”: è stata lei a licenziarsi ed ha trovato subito un nuovo posto di lavoro. Stringendo un poco i suoi occhi, alzando un pelino la voce, mi ha detto che non ce la faceva più, che era stufa di sgobbare mentre il suo datore di lavoro se ne andava a zonzo. Il suo piano di lavoro settimanale veniva regolarmente stravolto dagli “imprevisti”, che sono poi quelle situazioni tipo “mi dispiace ma domani non puoi fare libero”. E ad un tratto, tutta orgogliosa, mi dice: «Voglio proprio vedere come fanno quelli a sostituirmi adesso. Dove la trovano un’altra come me?». Mi sono trattenuto, ho preferito non infierire. La sua è una reazione umana (e come tale comune a molti – chi ne è immune?, mi verrebbe da dire), che tuttavia tradisce una doppia fragilità che dovrebbe farci riflettere. Il primo lato di questa fragilità è tutta individuale. Ci culliamo nella convinzione di essere indispensabili. Ed è una convinzione che trae origine da un nostro bisogno: essere apprezzati, gratificati, perlomeno riconosciuti (ed è un aspetto ben presente a chi si occupa di “gestione delle risorse umane”: provate a sfogliare un qualsiasi manuale sulla gestione del personale, capitolo dedicato alla motivazione…). Peccato che questa nostra convinzione altro non sia se non un’illusione. Le ditte non falliscono, il lavoro non si blocca se un dipendente viene licenziato o se ne va. In alcuni casi il sostituto si rivela peggiore, in altri migliore. Tutto lì. Il secondo lato di questa fragilità è collettiva. Questo atteggiamento egocentrico denota un’assenza di coscienza di classe: sono io come persona, con tanto di nome e cognome, che contribuisco alla produzione ed alla ricchezza di questo paese. Nessun altro lo sa e lo può fare come me. È difficile, seguendo questa logica, sviluppare un discorso che vada oltre il proprio naso (e se l’espressione “coscienza di classe” vi disturba, provate a sostituirlo con “senso di appartenenza ad un gruppo”). Ho parlato di “storia a lieto fine”. È ciò che sta in mezzo ad essere drammatico: le condizioni di lavoro, dettate dal datore di lavoro, ed il nostro modo di affrontare il lavoro stesso, dettato dalla nostra mentalità. Se non si riesce ad imbastire un discorso che abbia almeno una briciola di solidarietà quando le cose vanno bene, come si può farlo quando vanno male? Si salvi chi può? No, grazie.

Pubblicato il 

10.10.03

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