Quando ci si imbatte in temi come povertà, lavoro, reddito, esclusione, livello di vita, alloggio, ci si trova spesso con una parola: decenza. La si trova in tutti i rapporti delle organizzazioni internazionali, dalle Nazioni Unite (ne hanno fatto un’idea centrale nella lotta contro la povertà), alla Carta sociale europea (parla del diritto a “un livello di vita decente”), all’Organizzazione internazionale del lavoro (parla di “lavoro decente, in condizioni di libertà, equità, sicurezza e dignità”), a una coalizione di sindacati internazionali (mobilitati in una campagna “Lavoro decente, vita decente”). Decenza sembra però più vicino a convenienza e decoro che a dignità (termine che troviamo invece nella Costituzione svizzera: diritto a un’esistenza dignitosa). La nozione di decenza emerge nella cultura sociopolitica occidentale nel XIX secolo proprio con il salario minimo per poter vivere. Assume però una duplice quasi contrapposta valenza: relativa (rapportata cioè alla situazione locale; ci sarà chi è più povero e chi meno ricco) o estensiva (rientrerà allora anche la salute fisica e mentale, il livello di rispetto di sé e degli altri, il mantenimento della propria dignità, la disponibilità dei mezzi per partecipare alla vita civica, sociale, culturale). È importante rilevare questa sorta di contrapposizione perché si riflette nella evoluzione, ma la troviamo anche nella continua tensione ideologica-politica che ci ha accompagnato negli ultimi quarant’anni. Con la prepotenza, a partire dagli anni Ottanta e tuttora in atto, di chi pretende il primato non della società (o dell’uomo) ma del dio-mercato che mercifica tutto e da solo indica i valori da difendere. Con il lavoro che non è più questione di decenza o dignità, ma di costo da ridurre per generare mercato, vendere, fare profitti, rendere felice il capitale azionario (il primato degli azionisti). Se si adotta la nozione estensiva, ci si oppone all’idea che i redditi da lavoro, i salari, siano collocabili solo dentro un’ottica di concorrenzialità e di competitività, siano responsabili di tutto, debbano sempre essere tirati verso il basso, perché ne dipende la forza del mercato e della nazione, con cui è cofuso. Con la nozione estensiva si fa anche del produttore e del consumatore una cosa unica (che senso ha infatti produrre se poi si punisce il reddito salariale, il potere d’acquisto del consumatore?). Ma si va molto più in là: i bassi salari non servono alla nazione (o al cantone), serve invece l’accessibilità al consumo che è anche – e soprattutto – accessibilità all’alloggio, alla salute, all’educazione, alla partecipazione civica, alla vita ambientale, sociale, culturale, alla coesione del paese. Questa nozione estensiva ci è stata dimostrata ancora più essenziale dalla pandemia. Rimane però sempre fortemente contrastata da chi teme di perdere i propri privilegi. Poiché in questa nozione estensiva lo Stato è protagonista essenziale, correttivo e ridistributivo, ecco infatti riemergere, prepotenti e timorosi nello stesso tempo, sia i saltimbanchi del liberismo antistatale che, con il pretesto del debito, vogliono frenare l’attività dello Stato (salvo invocarlo per finanziare la propria attività), imprigionandolo nella gabbia della parità di bilancio, invocando sgravi fiscali per i ricchi, mostruosità economica prima ancora che politica; sia gli scherani della guerra al salario minimo e al sindacato che lo pretende ed è difensore di quella nozione estensiva, che non è rivendicazione ideologica (come si rimprovera), è semplicemente esigenza “umana”. E non si può quindi fare a meno di concludere dicendo che la decenza manca ancora sempre da una sola parte.
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