Dov'è la mia casa?

Sono le 9 del mattino del 6 gennaio e nel soggiorno di Belasandran Thuraippah la televisione è sintonizzata su uno dei tre canali che dallo Sri Lanka trasmettono in lingua tamil. Le immagini spettrali della devastazione dello tsunami scorrono incessantemente , nel sottofondo il triste bollettino dei morti e dispersi: un copione dell’orrore che si replica ogni giorno dal 26 dicembre. Responsabile per la Tamils rehabilitation organization (Tro, l’organizzazione umanitaria per la riabilitazione dei tamil che ha una sua sede anche in Svizzera, a Emmenbrücke) per il Ticino, Thuraippah è uno dei trecento tamil rifugiatisi nel cantone (in tutto il territorio elvetico ci sono circa 35 mila tamil) per sfuggire alla persecuzione politica. Come lui, anche il suo amico Kanapa Thipillai che in quel maledetto 26 dicembre ha perso cinquanta parenti stretti. Seduto su una poltrona, Thipillai, guarda quelle immagini e scuote la testa tristemente. «Il villaggio in cui vivevano – racconta Thipillai –, nella zona costiera di Mullaitivu, è stato completamente raso al suolo. Qualche giorno dopo il maremoto, guardando la televisione tamil in famiglia abbiamo riconosciuto una nostra parente che piangeva e che diceva di aver perso tutti. So che almeno i miei genitori sono vivi perché sono riusciti a fuggire. Mio nipote al telefono mi ha detto che ci sono molte persone che vagano ancora sotto choc, che hanno perso la memoria. Mia moglie sta male da giorni e per questo motivo cerco d’impedirle di vedere la tivù.» Storie tutte diverse ma accomunate dal sigillo indelebile posto dall’ondata mortale. Vi è una dignità e una compostezza nel dolore di Thillipai e di Thuraippah che rimanda ad un’altra dimensione della considerazione della vita e della morte. Thuraippah fino alla notte del 5 gennaio ha vissuto col cuore in gola per la sorte di sua sorella e della sua famiglia, quando ha avuto la notizia del loro ritrovamento. Per ora sa di aver perso un nipote, un ragazzo. «Quando abbiamo appreso del maremoto, lo choc è stato grande – ci dice Thuraippah – per noi che ci troviamo qui lontano da casa, tutti con parenti ed amici laggiù. Io mi sono detto che non potevo fermarmi alla mia angoscia: c’erano troppe persone che soffrivano come e più di me. Laggiù già dapprima c’erano numerosi bambini mutilati dalle mine, ora ci sono anche centinaia di orfani, persone che hanno perso tutto e tutti i loro cari. Il mio dolore abbraccia questo dolore sterminato. Così come la mia perdita impallidisce di fronte agli oltre 50 familiari persi da Kanapa. Per questo stiamo reagendo, stiamo unendo le nostre forze per cercare di far arrivare gli aiuti nello Sri Lanka, soprattutto in quelle zone dove l’esercito governativo ha impedito in un primo momento l’ingresso di alcune organizzazioni che portavano soccorso.» E il timore che i soccorsi rischino di non raggiungere le persone di etnia tamil, in rivolta contro il governo di Colombo, ha spinto le comunità presenti in Svizzera ad organizzare una raccolta di fondi in modo autonomo e facendo capo alla loro organizzazione più importante, la Tro, che da 19 anni sostiene le popolazioni del nord-est dello Sri Lanka con il suo aiuto umanitario. Tragedia nella tragedia, la comunità tamil, già stremata dalla guerra civile in atto da vent’anni fra tamil e singalesi, ha subìto un colpo immane. «Vede – prosegue Thuraippah – ciò che rattrista in tutto quanto sta succedendo nello Sri Lanka, è che le fonti governative approfittino anche di quest’apocalisse per addossare alle Tigri (i guerriglieri del movimento di Liberazione dell’Eelam, ndr) responsabilità che secondo le fonti tamil non hanno. Qualche giorno fa (il 2 gennaio, ndr) l’esercito governativo ha fatto scappare 64 famiglie da alcuni campi d’emergenza e poi ha dato fuoco alle tendopoli. Subito dopo le fonti ufficiali hanno dato la colpa alle Tigri. Un altro episodio di sopruso: a Thirukovil e ad Amparai la Special Task Force ha sequestrato due trattori della nostra organizzazione Tro, in diverse località i nostri volontari sono stati aggrediti dall’esercito che ha anche portato via loro dei carichi di aiuti, ha staccato le etichette della Tro e li ha distribuiti. Il messaggio è chiaro: far sì che la nostra organizzazione venga ostacolata nella sua opera d’intervento e screditata agli occhi della popolazione locale e dell’opinione pubblica in generale. Questa notizia mi ha preoccupato molto anche perché stiamo raccogliendo i fondi per conto della Tro e non vorremmo che le persone credano a queste menzogne.» In Ticino alcuni tamil sono partiti per lo Sri Lanka alla ricerca dei parenti superstiti, gli altri stanno raccogliendo a tappeto soldi, medicinali, vestiti per conto del Tro. «Finora in tutta la Svizzera abbiamo raccolto circa 280 mila franchi. Ogni centesimo è certificato – dice Thuraippah – perché riteniamo che la trasparenza sia fondamentale in momenti gravi e concitati come questi.» Un grande aiuto sta arrivando dai loro figli e dai loro amici che, per dare un significativo contributo al sostegno delle loro terre d’origine devastate, hanno deciso di creare una “Student organization” (sulle orme dell’Organizzazione internazionale dei giovani tamil che la scorsa settimana ha ringraziato i ticinesi per l’aiuto finanziario) affinché un domani, quando si saranno spenti i riflettori dei media, non si spenga anche lo slancio di solidarietà. Fra questi Charles, figlio di Thuraippah, che studia al Liceo di Bellinzona. A casa Thuraippah, sembra una piccola centrale operativa: mi mostrano i fogli con le fotocopie delle ricevute, ci sono gli appelli della Tro per la raccolta di fondi. Poi ci pensa Tipan, fratello minore di Kanapa Thipillai a fornire tutta una serie di indirizzi web sul maremoto, sulla storia dello Sri Lanka e dei Tamil. «Mi chiedo cosa troverò – ci dice Kanapa – semmai potrò ritornare. Laggiù il governo di Colombo dice che nel giro di 6-8 mesi tutto verrà ricostruito. È una presa in giro: i sopravvissuti ritengono invece che ci vorranno dai 15 ai 20 anni perché si ritorni alla normalità. Chi è sopravvissuto, rischia d’impazzire dal dolore. So di tanti che per lo choc si sono chiusi e hanno perso la parola. La maggior parte delle persone non potrà andare via, ricostruirsi una vita da un’altra parte. Fra sei mesi mi chiedo cosà sarà di loro. Non bisogna dimenticarli, noi non lo faremo ma è importante che anche la comunità internazionale non li dimentichi.»

Pubblicato il

14.01.2005 03:30
Maria Pirisi