Dopo Arafat pieno di incognite

E ora? È solo un grande punto interrogativo. La sparatoria di domenica sera a Gaza, abbia avuto o meno il candidato alla successione di Arafat come obiettivo, è un importante segnale. Il rischio di scontri armati è reale. E molteplici possono essere anche gli interessi volti a impedire una transizione tranquilla al dopo-Arafat. Per i palestinesi oggi, come ricordato da Yasser Abed Rabbo, uno dei negoziatori degli “accordi di Ginevra”, la sfida da vincere è quella della democrazia. Solo dandosi una dirigenza pluralista, realmente rappresentativa e sovranamente scelta (perché non ci sarà un nuovo Arafat in grado di imporsi alle varie forze in campo) i palestinesi potranno cercare di costruire il loro futuro verso quello Stato nazionale, di cui già esistono le basi nella lunga serie di negoziati fin qui condotti. L’inizio non è stato dei più felici per il mancato coinvolgimento di Hamas (che non vuol dire solo terrorismo) e del Jihad islamico. Nella vignetta di Vauro sul Manifesto del 12 novembre all’indomani della scomparsa di Yassir Arafat (le sue vignette sono spesso veri e propri editoriali) si vede una sorta di fantasma il cui lenzuolo non è altro che una grande kefia che incombe su uno Sharon spaventato. Si può addirittura dire che con la sua scomparsa, Abu Ammar abbia vinto l’ultima battaglia: costringere Israele e Stati Uniti a scoprire il loro gioco. Dopo aver ripetuto per anni che il vero ostacolo alla pace era Arafat e alla sua morte aver affermato che si è davanti a una “svolta storica”, il premier israeliano dovrebbe ora mostrare le carte. Ma non è assolutamente detto che sia così. Sharon si è subito premurato di precisare che la ripresa dei negoziati dipende dalla capacità della nuova dirigenza palestinese di fermare il terrorismo. E per Ariel Sharon qualsiasi azione armata contro gli israeliani equivale a un atto terroristico, anche la bomba lanciata contro un blindato dell’esercito nei territori occupati. In pratica, Sharon, per parlare di pace, esige una Palestina prona e cheta, del tutto “normalizzata”, pur sapendo perfettamente che non sarà mai così. Diverso è il discorso per gli Stati Uniti. Bush ha ora maggior spazio di manovra, sia perché è al suo secondo e ultimo mandato, sia perché la rimessa in moto del processo negoziale in Palestina lo risolleverebbe, almeno in parte, dal disastro iracheno. Ed è chiaro che in ultima analisi a dettare i tempi degli eventi in quella parte del mondo sono gli Stati Uniti. Pensare che sia Israele a imporre, grazie alle pressioni della lobby ebraica, le proprie esigenze a Washington mi pare ormai erroneo. Le vicende degli ultimi anni provano che da tempo la politica israeliana risponde alle esigenze strategiche degli Stati Uniti, che lo Stato di Israele, per sopravvivere, è costretto a essere poco più di una pedina degli americani. Ma, per dimostrare che Arafat era l’ostacolo e rilanciare quindi il negoziato occorrono sostanziali concessioni, perché nell’attuale situazione nessun dirigente palestinese, per quanto sensibile possa essere alla sirena americana, potrà accettare quanto respinto da Yassir Arafat. Fra una sessantina di giorni dovremmo conoscere il nome del nuovo presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, poi è prevista una nuova tornata elettorale per la scelta dei parlamentari. Un iter elettorale il cui completo svolgimento dipenderà anche da Israele: votare sotto occupazione risulta sempre un esercizio assai complesso, se non impossibile, dal profilo democratico. Ma in realtà il vero problema resta quello di sempre. Non vi può essere pace se non c’è giustizia. «La pace non è un accordo fra individui, ma la riconciliazione fra popoli…. Condanno il terrorismo, condanno la morte di civili innocenti, siano israeliani, americani o palestinesi, che siano uccisi da estremisti palestinesi, da coloni israeliani o dal governo israeliano. Ma le condanne non arrestano il terrorismo. Per fermarlo, dobbiamo comprendere che è il sintomo, non la malattia (...). La costruzione di colonie, la demolizione di case, gli assassini politici, la chiusura delle frontiere, il vergognoso silenzio del governo israeliano dinanzi alla violenza dei coloni e tutte le altre umiliazioni quotidiane non calmano la situazione». A scrivere queste parole, ribadendo la propria disponibilità al dialogo, sul New York Times del 3 febbraio del 2002 è Yassir Arafat. Da allora la situazione s’è aggravata. Israele si è appropriata di altri territori con la costruzione (illegale) del muro di separazione, altre terre coltivate sono state distrutte, così come altre migliaia di abitazioni. Il numero delle vittime è aumentato di giorno in giorno e continua a crescere. Sarà possibile tornare a quella “pace dei bravi” uccisa, con l’assassinio di Rabin? O sarà il terrorista israeliano suo assassino a uscirne vittorioso? Tutto dipende da una sola, fondamentale domanda: è lo Stato di Israele disposto a riconoscere uno Stato palestinese, veramente indipendente e sovrano, padrone delle sue risorse e del suo destino, assiso con pari dignità nel consesso delle nazioni libere?

Pubblicato il

19.11.2004 04:30
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