Come uno stracco rituale va in scena a New York in questi giorni a cavallo dell’8 marzo la Conferenza internazionale dell’Onu sui diritti delle donne. Essa vuole fare un bilancio a dieci anni da quello che allora fu un vero evento, la Conferenza sulle donne di Pechino. Oggi invece i media seguono la Conferenza con distacco, a dispetto di una partecipazione di rango (la Svizzera è rappresentata dal consigliere federale Pascal Couchepin, a cui la nostra collaboratrice Tiziana Filippi scrive a pagina 14 di questo numero di area una “lettera sulle donne”). Il bilancio che si può fare a dieci anni da Pechino non è entusiasmante. Da un lato si sono pur visti dei progressi: dal ’95 ad oggi ad esempio la Svizzera s’è data un congedo maternità per tutte le salariate, il tema delle mutilazioni genitali femminili ha ottenuto l’attenzione dei governi e dell’opinione pubblica internazionale e qualcosa si comincia a fare contro la tratta delle prostitute. D’altro canto però a livello planetario c’è stata una regressione culturale. Oggi è tornato prepotentemente alla ribalta un approccio rigorosamente essenzialista alla questione dei rapporti fra i sessi: la donna come l’uomo sempre più vengono ingabbiati nella loro spesso soltanto presunta natura, nella loro essenza che tutto della loro vita determina. Con tanti saluti all’autonomia individuale e all’autodeterminazione. E a patire di più questa regressione culturale, che comincia ad esplicare i suoi effetti pratici, sono proprio le donne, sempre più costrette a definirsi in primo luogo in quanto corpo riproduttivo. Cos’è successo dal ’95 ad oggi? S’è in sostanza costituita un’alleanza contro natura tra fondamentalismi, quello cristiano da un lato e quello islamico dall’altro. Un’alleanza che il ripiegamento identitario successivo allo choc dell’11 settembre e la pretestuosa guerra permanente fra civiltà hanno paradossalmente rafforzato. Di questa alleanza si erano avute le prime avvisaglie proprio a Pechino, quando soprattutto in materia di diritti riproduttivi il Vaticano (spesso accompagnato dall’Irlanda e da qualche paese latinoamericano) e diversi stati musulmani avevano sollevato identiche riserve contro il documento finale. Ora, non casualmente, si sono aggiunti gli Stati Uniti, che dieci anni fa avevano sostenuto le conclusioni della Conferenza ma che proprio a New York fanno sapere di non voler più riconoscere il diritto all’aborto fra le conquiste di Pechino ’95. Perfettamente in linea con la maggioranza neoconservatrice ultrareligiosa che nel secondo mandato Bush promette di fare sfracelli e che intanto ha già imposto la riduzione dell’educazione sessuale nelle scuole americane ad una mera educazione all’astinenza, ciò che farà sprofondare nella più totale ignoranza in materia riproduttiva milioni di adolescenti americani. Si arrangino poi da soli a venir a capo di una gravidanza non prevista o dell’Aids. Hanno ragione Samuel Huntington e l’amministrazione Bush: siamo in piena guerra di civiltà. Ma non è una guerra fra civiltà: come dimostra la questione dei diritti delle donne, è una guerra senza confini per o contro la civiltà.

Pubblicato il 

04.03.05

Edizione cartacea

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