Donna, tu ci accudirai per tre soldi

Le testimonianze di tre lavoratrici in casa anziani. Sovvracarico, occupazioni frammentate in percentuali: «Così paghiamo il retaggio culturale che ci vuole a disposizione in maniera gratuita»

Le cure e l'assistenza ad anziani disabili e malati sono compiti svolti 24 ore su 24, 365 giorni all’anno senza sconti né santi che tengano.

Si lavora a turni, la sera, la notte, durante il fine settimana o nei giorni festivi in un settore che è declinato soprattutto al femminile. Quali trucchi inventano le donne per riuscire a incastrare l’impossibile?

Lo abbiamo chiesto a tre lavoratrici attive in case medicalizzate.

 

In una struttura medicalizzata i campanelli suonano di continuo durante la notte. C’è chi, affetto da demenza cognitiva, chiede di fare colazione alle due del mattino o chi se la prende con te perché triste o magari stanco di vivere in un posto che non è più casa sua.


È uno dei grandi temi, quello dell’invecchiamento della popolazione, cui si lega il discorso della qualità di vita e di cura dovute a chi entra nell’ultima parte del proprio percorso esistenziale, mentre con la stessa forza vanno reclamate la garanzia e la tutela di buone condizioni di lavoro per la categoria di riferimento.


Senza un principio ordinatore, che sia anche etico, sul tipo di approccio voluto (medico o umano?), sulla convinzione della necessità di maggiori investimenti nel settore, si rischia personale non sempre sufficientemente qualificato e motivato, sicuramente sotto pressione e logorato.

 

Le testimonianze


Anna* ha appena terminato una telefonata ai figli, pronti a vivere il doposcuola dai nonni. Dopo una “passeggiata” fra le corsie di un supermercato, dove non deve comprare niente, se non far passare il tempo in maniera passiva, si dirige all’autosilo dove ha affittato un posteggio.

È poco illuminato, in auto si siede al posto dell’accompagnatore, sui vetri laterali fissa le protezioni solari che le fanno da scudo, impedendo la vista dall’esterno, abbassa il sedile, si copre con una coperta di pile, e inizia ad ascoltare musica a basso volume. Ad Anna piace un tormentone che si sente ovunque e lo canticchia ridendo: “E domani non lavoro quindi, uh, ce ne stiamo distesi, ah… Ho visto lei che bacia lui, che bacia lei che bacia me, mon amour, amour...”.
Anna, che ci fai in auto? «Oggi ho il turno spezzato. Vengo dal Comasco, mi sono alzata poco prima delle 5, ho preparato le colazioni, sistemato un po’ la casa e sono uscita presto, perché la colonna non manca mai... Ho iniziato il turno delle 7.30, che dura cinque ore filate fino alle 12.30. Riprenderò alle 17 e alle 20, se tutto va bene, terminerò: alle 21 speriamo di essere finalmente sul divano».

 

La pausa non finisce mai, sono parecchie quattro ore e mezzo di interruzione: «Che cosa vuoi che faccia? A casa non riesco a tornare, c’è chi mi ha consigliato di andare in palestra (a parte che in Svizzera costa troppo, ma chi ne ha la forza?) e, allora, cerco di riposare così. All’inizio ero molto in ansia e vivevo queste pause in auto in maniera tesa, preoccupandomi di essere vista; ora non più, con qualche accorgimento, ho creato la mia privacy, e riesco anche a dormire per 30-40 minuti. Il resto del tempo lo ammazzo a chattare con amiche o a seguire i social, che mi distraggono».


Anna ha 39 anni, due bambini alle scuole elementari, e non ha avuto grandi possibilità di formazione: prima di diventare ausiliaria di cura, faceva la parrucchiera senza diploma, poi il matrimonio e la famiglia. Il marito – così lo descrive lei – era «un disastro, più interessato ai bar e a divertirsi e sono rimasta presto sola con la responsabilità dei figli, del loro mantenimento cui contribuisce quando si ricorda».

Anna inizia a varcare il confine per fare le pulizie, fino a quando, qualcuno le suggerisce una strada: un corso organizzato dalla Croce Rossa («caro, 2mila franchi, che hanno pagato i miei genitori per aiutarmi a mettermi a posto»), quattro settimane di stage e la donna ha le carte in regola per entrare in una casa medicalizzata del Luganese come ausiliaria di cura.


Anna, ma ti piace il tuo lavoro? «Non tutti i residenti sono gentili, capita anche di essere aggrediti verbalmente. D’accordo, posso capire, non è facile la situazione e alcuni non hanno nessuno che li venga a trovare, forse si sentono abbandonati. Non posso dire che questo lavoro mi piaccia: devo pulirli, entrare nell’intimità delle persone, non mi sono ancora abituata a padelle e pappagalli, alla morte e a un letto che si libera, ma me lo faccio andare bene. Sono occupata al 70% e mi resta così un giorno e mezzo a settimana a disposizione per le mie cose private, e guadagno un botto rispetto a quanto potrei mai aspirare in Italia».


Scelta consapevole
Se Anna non ha il cosiddetto fuoco della passione, ma si “tura il naso”, un altro discorso vale per Léa*, quasi 50 anni, ha scelto con consapevolezza di lavorare con gli anziani. «Sono francese e ho un diploma di educatrice: a Lione lavoravo in un foyer per disabili, ma il diploma non mi è stato riconosciuto nel canton Ticino, dove mi sono trasferita quando mi sono sposata. Qui ho messo su famiglia e l’ho ingrandita bene, mettendo al mondo quattro figli. Certo, la mia priorità era crescerli, ma pur soddisfatta di seguire i ragazzi, mi pesava dovermi occupare in maniera ripetitiva della casa (rifai i letti, passa l’aspirapolvere, prepara la cena). L’aspetto che mi pesava era la mancanza di indipendenza economica dato da uno stipendio a nome tuo. Lavoravo tutto il giorno, ma non avevo dei miei soldi».


Léa, donna attiva ed entusiasta per natura, si rivolge agli uffici di orientamento, che le indicano una nuova formazione, quella di “specialista in attivazione”. «Sono la figura che, teoricamente, propone attività mirate per mantenere e riattivare le capacità fisiche, mentali e sociali dei residenti nella loro vita quotidiana. Raccolgo informazioni sulla storia clinica e personale degli ospiti e dovrei, uso il condizionale, definire gli obiettivi e le misure terapeutiche in base ai loro bisogni e interessi. Nella realtà dei fatti incontro molte resistenze nello svolgimento della professione...».


Léa, dopo avere frequentato la Scuola specializzata superiore medico tecnica a Locarno ed essersi diplomata, trova lavoro in una casa per anziani gestita da suore. «Il margine di manovra è ristretto: non conta che tu sia il professionista, è la direzione a dettare le regole e a decidere quali attività autorizzare. Trovo che vi sia riluttanza nell’accettare nuove modalità di attenzione e coinvolgimento degli ospiti, forse anche per mancanza di conoscenza del mio ruolo, che viene confuso con quello di animatrice. Non nascondo di provare sconforto e in un contesto tanto delicato, come quello della casa per anziani, non dovrebbe succedere. Al contrario, la direzione dovrebbe facilitare e motivare il mio lavoro, cosa che non avviene anche sotto altri aspetti. Sono entrata in percentuale ridotta, al 50%, perché con quattro figli era difficile, se non impossibile, conciliare vita familiare e professionale. Durante la pandemia, periodo doppiamente terribile per chi come me lavorava a stretto contatto con la categoria più a rischio, mi sono separata e ho avuto la necessità di dover aumentare la mia percentuale. La risposta è stata che non c’era la possibilità per concedermi un tempo pieno, ma quando vedi che poi viene assunta un’altra attivatrice al 50%, ti chiedi: perché? Una risposta me la sono data: se a un uomo viene sempre offerto un impiego al 100%, perché ha famiglia da mantenere (pure quando è single...), di fronte a una donna si pensa che a sostenerla ci sia lo spirito santo. Le si fanno i conti in tasca: l’ex le passerà un buon assegno, “la famiglia la aiuterà”. Ecco, tutto ciò è irrispettoso, profondamente ingiusto e patriarcale: segno di una società che non è riuscita a progredire, garantendo pari diritti a tutti i cittadini».

 

Meno ore, ma stessa paga

Giovanna*, 61 anni, è un’operatrice sociosanitaria ed è una donna diretta e con le idee in chiaro: «La penuria di personale è ormai diffusa trasversalmente in altri paesi. Personale insufficiente significa peggiori condizioni per chi è al fronte: un collega malato va sostituito, assumendosi il suo turno e non importa se hai appena finito una serie di serali, che ti penalizzano nella tua vita sociale».

Giovanna, agile e veloce che sembra una ragazzina, scuote la testa: «Piani di lavoro che cambiano di continuo in strutture dove carico di lavoro è già alto. Inoltre, bisogna tener conto della casistica con cui si è confrontati: persone in buona parte con deficit cognitivi, che aggiunge logorio sia psichico che fisico per i curanti».


Giovanna, quale potrebbe essere la soluzione? «Per me nel settore delle cure devono diminuire le ore di lavoro, mantenendo lo stesso salario: mi sembra che in Svizzera interna ci sia già un progetto pilota. È l’unico modo per garantire buone condizioni a un personale messo alle strette».


L’operatrice sociosanitaria è arrivata alla professione in un secondo tempo, in un momento di ridefinizione della propria vita. Nella sua prima vita è stata centralinista, poi il destino di tante donne: il matrimonio e la decisione di lasciare il lavoro per occuparsi dei bambini, perché così «mi era stato insegnato che si faceva».

Crescono i figli, aumenta anche «la mia irrequietezza rispetto alla definizione di “casalinga”: volevo tornare a essere attiva professionalmente, mentre pensavo alla misera pensione che mi era destinata. E, comunque, occorreva un secondo stipendio per mantenere i ragazzi all’università. La mia professione però... non esisteva più e a 40 anni mi sono ritrovata a Mendrisio sui banchi di scuola con i giovani».


L’attitudine non le mancava («mi piace occuparmi dei più fragili, di chi è vulnerabile, ritengo di avere una sensibilità che mi porta a capire gli altri e ho senso del sacrificio») e vicina all’età del pensionamento tira il suo bilancio: «Stanca, ancora convinta della riqualifica scelta, ma profondamente critica verso la gestione, in generale, delle case per anziani. Vogliamo un approccio medico o anche umano? Se è vero che tanti residenti hanno problemi di deficit cognitivo, non presentano un declino affettivo. Cercare di parlare con una persona con demenza non è semplice, ma è necessario. Hanno bisogno di qualcuno che li capisca e per far questo devi conoscere anche la loro storia personale. Nel mio reparto c’è una signora che ha perso la figlia. È un trauma ancora vivo e ha la necessità di parlarne, ma ci vuole qualcuno disposto a sedersi e ad ascoltarla, tenendole la mano. Se pensi che basti solo infilarle le calze elastiche, stai offrendo solo un servizio che non ha nulla di empatico e umano».

 

Pubblicato il

27.04.2023 15:14
Raffaella Brignoni