Donna e migrante: duplice discriminazione

Essere donna nella nostra società espone già di per sé a una serie di discriminazioni, ma quando a questo si aggiunge un percorso di migrazione, le cose si complicano ulteriormente dando origine a una doppia discriminazione, che si aggrava ancor di più per chi appartiene alla comunità Lgbitq. Per questo il 14 giugno le donne saranno solidali tra di loro e sciopereranno, anche per combattere questa doppia discriminazione che colpisce molte di loro in tutto il mondo.

Le donne rappresentano circa la metà della popolazione migrante in Europa, fuggono dalle guerre, dalla povertà e da situazioni fatte di violenza e sottomissione: la discriminazione di genere può essere una concausa della loro partenza, durante il loro viaggio subiscono spesso prevaricazioni e violenze e non è detto che queste finiscano una volta giunte nel paese d’accoglienza, dove le forme di discriminazione possono essere molteplici.
C’è ad esempio il mancato riconoscimento dei titoli di studio delle migranti, che le confina per la maggior parte dei casi a lavori nel settore dell’economia domestica e delle cure, ritenuti “affini” all’essere donna, e che sono poco valorizzati e perciò sottopagati (infatti, anche se molto qualificate, raramente le donne immigrate riescono a trovare un impiego “di qualità”). Svolgendo lavori poco remunerati, queste donne non riescono ad essere pienamente autonome economicamente, e questo, assieme al fatto che il loro diritto di soggiorno in Svizzera è legato a quello del marito, le porta a una situazione di dipendenza da quest’ultimo. Quindi, il ricatto è presto fatto: puoi stare in Svizzera perché sei la moglie del tale oppure perché hai un lavoro, se queste condizioni cadono te ne devi andare. Così queste persone sono spesso spinte a tollerare situazioni di violenza e soprusi, che siano sul posto di lavoro o tra le mura domestiche, senza che venga fatta giustizia.


Nei Cantoni di Vaud e di Ginevra, esiste una rete molto sviluppata di aiuto alle vittime, che prende a carico queste donne e le aiuta nelle procedure di ricorso in caso di decisione di rimpatrio dovuta alla separazione dal marito. Una situazione molto delicata in quanto se da un lato la legge prevede la possibilità di non rimpatriare una donna che si separa dal marito violento, dall’altro è molto difficile provare la sistematicità delle violenze. Per la Segreteria di Stato della migrazione (Sem), infatti «occorre che ci siano dei seri indizi che possano provare la violenza subita, altrimenti vi è il rischio che alcuni invochino abusivamente una violenza coniugale per tentare di conservare il proprio statuto ed evitare il rimpatrio». Ma questi indizi, stando alle associazioni d’aiuto alle vittime sono davvero difficili da provare: se subite tra le mura domestiche, le violenze non lasciano per forza dei segni visibili, soprattutto se si tratta di violenza psicologica o economica.
Le conseguenze, anche in caso di mancato rinvio, non sono trascurabili: spesso la donna in questione esita a lasciare il marito violento e, anche dopo averlo denunciato, viste le difficoltà a dimostrare i soprusi subiti, finisce con il tornare da lui cedendo ai ricatti e alle violenze. Nel 2017, in risposta a una mozione del Gran Consiglio, anche il Consiglio di Stato ginevrino ha riconosciuto che esiste un problema in tal senso: «Le autorità ginevrine non possono dare alcuna sicurezza quanto alla possibilità di restare in Svizzera per queste vittime, ciò ha come conseguenza la dissuasione delle stesse dal denunciare. Questa situazione, che permette agli autori di violenza di fare pressione sulle loro vittime sfuggendo alla giustizia, è inaccettabile». Ma per colmare questa lacuna occorrerebbe una modifica della Legge federale sugli stranieri.


Per le donne migranti poi, il fatto di essere coloro che si occupano della casa, dove passano molte ore (se non le giornate intere), rappresenta un ostacolo all’integrazione perché gli scambi con l’esterno sono limitati. Un esempio ne è la segnalazione fatta ad area da un docente che racconta di aver saputo che la famiglia di un suo allievo, di origini kosovare e in Ticino da diverso tempo, aveva fatto richiesta di naturalizzazione. La richiesta era stata accettata per tutta la famiglia, fatta eccezione che per la madre, perché si è ritenuto fosse poco integrata. In effetti, ci conferma il docente, la donna in questione non parlava ancora bene l’italiano, un fattore dovuto però, più che alla mancanza di volontà di integrarsi, alla mancanza di opportunità per farlo.

Peggio ancora se gay
Se quella delle donne migranti è una realtà difficile e di cui si parla poco, quella delle persone migranti Lgbtiq (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, intersex e queer) lo è ancora di più. Queste persone sono infatti confrontate a una maggiore discriminazione, dovuta all’ulteriore cumulo di profili stigmatizzati e discriminati. Spesso in fuga dal proprio paese per cercare protezione dove i loro diritti sono meglio riconosciuti e tutelati, restano esposte a rischi fisici, psichici e sociali anche nel paese d’accoglienza. La maggior parte di queste persone vive in un’insicurezza costante, reale o percepita, che le costringe a nascondersi per proteggersi, mantenendo il segreto della propria identità e/o isolandosi dal proprio entourage. Questa solitudine quotidiana e la paura di essere scoperte possono avere delle conseguenze molto forti, privandole oltretutto di risorse di cui avrebbero bisogno. Secondo l’ultimo rapporto di un’importante Ong europea che si occupa dei diritti umani di persone Lgbtiq, Ilga, sono 72 i paesi nel mondo che criminalizzano l’omosessualità. Le persone che scappano da queste realtà, si ritrovano ancora a rischio di omo- e transfobia anche nel paese d’accoglienza, dove possono essere oggetto di violenze e discriminazioni.
Per dire basta alle molteplici discriminazioni subite da chi viene da un altro paese e per chiedere che il diritto d’asilo permetta a tutte coloro la cui vita è in qualche modo minacciata di restare, le donne sciopereranno quindi il 14 giugno in tutta la Svizzera.

 

Le testimonianze

 

Katrina* viene dal Canada, è arrivata in Svizzera con suo marito (ticinese) nel 2006 e per alcuni anni ha fatto la casalinga e si è occupata dei suoi figli. In Canada lavorava con le persone disabili, un mestiere che le piaceva molto, ma che non ha più potuto intraprendere in Svizzera. «I miei titoli di studio canadesi non sono riconosciuti qui perché nel sociale ci sono delle regole diverse nei due paesi, e il fatto di essere rimasta a casa così tanto tempo non mi ha aiutato a trovare facilmente un lavoro», ci spiega. Se di per sé non è mai facile rimettersi in pista dopo una lunga pausa lavorativa, lo è ancora meno se ci sono ostacoli linguistici o di riconoscimento delle qualifiche, così Katrina si rassegna, ripiega sul settore delle pulizie e viene assunta da una ditta.
«Per quella ditta lavoravo in tanti posti diversi e mi sono resa conto che quando iniziavo in un posto nuovo non venivo trattata con rispetto: prima di conoscermi le persone mi trattavano in modo sgarbato dicendomi di pulire di qua, che era sporco di là, ma senza considerazione per la mia persona e il mio lavoro». Katrina dopo un po’ riusciva a guadagnarsi il rispetto delle persone alle quali puliva l’ufficio, e il loro atteggiamento nei suoi confronti cambiava completamente: «Cercavo di far capire che anche il mio lavoro era importante, che se nessuno puliva la banca, come avrebbero lavorato gli impiegati?».
Oggi Katrina sta seguendo una riqualifica professionale come specialista in attivazione. Questo perché, se da un lato voleva tornare a fare un lavoro almeno simile a quello che aveva imparato nel suo paese, dall’altro è anche vero che nel settore delle pulizie il salario era misero e non riusciva mai ad arrivare a un tempo pieno cumulando le ore nei vari posti in cui la ditta la mandava a pulire. «Adesso ho ricominciato, alla mia età sono ancora un’apprendista, ma mi piace la formazione che sto seguendo ed è simile a quanto facevo da giovane in Canada, solo che ora lavoro con gli anziani». Dice di non avere l’impressione di essere discriminata nel suo lavoro e che ora non sente più quella mancanza di rispetto che ha vissuto nel settore delle pulizie.
«Come straniera personalmente non ho vissuto episodi eclatanti di discriminazione, anche se inizialmente mi guardavano male perché avevo l’abitudine di parlare anche con chi non conoscevo, ma ho presto capito che qui non si fa così e mi sono adeguata. Forse però sono anche una straniera fortunata perché vengo dal Canada e in generale la gente qui ha un’immagine positiva del mio paese. Mi è capitato però di sentire discorsi meno gentili su amiche che vengono da altri posti. Ad esempio un giorno passeggiavo con un’amica di Santo Domingo e per strada ho salutato due anziani, come faccio sempre, ma loro si sono girati dall’altra parte. Ci sono rimasta male, e la mia amica mi ha detto di stare tranquilla, che era a causa sua che non avevano salutato. Non volevo crederci, ma era così: la gente a volte è cattiva e ha dei pregiudizi su certi gruppi etnici».


L’esempio citato da Katrina conferma quanto raccontato da Maria*, venezuelana, che ha faticato non poco ad integrarsi in Ticino: «Quando sono arrivata ho subito capito che dovevo cambiare modo di vestirmi, che qui le magliette scollate, i pantaloni attillati e i colori accesi non erano visti di buon occhio e ho rivisto il mio look», ci racconta sorridendo e indicando il casto cardigan che indossa. Maria ha un passato come modella, è molto bella, ma questo non l’ha aiutata, anzi: «Mi trattavano come se fossi una prostituta, ho avuto problemi anche con la famiglia di mio marito a farmi accettare, c’è un po’ quest’idea che le sudamericane siano tutte delle prostitute e ti trattano di conseguenza, senza nemmeno conoscerti».
Adesso Maria è in Svizzera da una decina di anni, si è integrata, ma ancora oggi l’ansia del rinnovo del permesso non l’abbandona e, ci racconta, un paio di anni fa si è ritrovata a farsi andar bene un posto di lavoro nonostante fosse sull’orlo del burnout, perché senza un lavoro non avrebbe ottenuto il rinnovo del permesso: «Era un periodo difficile, avrei voluto stare a casa ad occuparmi della mia bambina che stava passando un momento in cui aveva bisogno della mia presenza, ma non ho potuto farlo». Racconta anche un episodio di alcuni mesi fa, quando «dopo aver accompagnato a scuola mia figlia mi sono fermata veloce a buttare delle bottiglie nell’apposito container e, per fare più in fretta perché dovevo andare al lavoro, ho lasciato acceso il motore dell’auto. Una signora che passava mi ha fatto notare che avrei dovuto spegnerlo, gentilmente le ho risposto che aveva ragione, ma che andavo di fretta. Appena ha sentito il mio accento e ha capito che ero straniera ha iniziato ad insultarmi dandomi della puttana e dicendomi di tornare al mio paese». Un episodio che l’ha lasciata sconvolta per tutta la giornata.

 

* nomi di fantasia


Pubblicato il

03.04.2019 19:25
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