Donatori e creduloni

Siamo un popolo di donatori. 1,812 miliardi sono finiti nel 2018 nelle casse delle organizzazioni di beneficenza attive in Svizzera e ben due terzi delle donazioni arrivavano da privati. Avete letto bene, quasi due miliardi. La fonte è Zewo, label di certificazione del ramo, la matematica a cura dell’Università di Friborgo. Numeri impressionanti, stabili da quattro anni. Dicono gli specialisti che progetti per l’estero e per Elvezia pari sono, quasi perfetta la spartizione. Per certo aiuta il beneficio sulle imposte. Se le regole del gioco e le percentuali variano a seconda dei cantoni, la maggior parte (Ticino compreso) consente di dedurre fino al 20 per cento dell’imponibile. Vantaggio fiscale a parte, mi piace pensare si tratti anche di tradizione solidale e dell’effetto di un certo diffuso benessere, doniamo perché abbiamo tanto e in qualche maniera la coscienza collettiva dice che dare una mano al prossimo è giusto e sano. Sia come sia, Elvezia è terra di una vera e propria industria del ramo. Migliaia di fondazioni, spesso nate da un’eredità che diventa capitale e, nonostante l’epoca di interessi bassi se non negativi, si moltiplica. Organizzazioni che si dedicano alle più varie attività di sostegno ad umani e animali meno fortunati, a progetti attorno a politica, cultura e stare insieme. La concorrenza è inevitabile, i costi di gestione elevati. Dalle nostre parti c’è allora la guerra degli appelli e dei gadget. C’è che quando vieni identificato come donatore, finisci in apposite liste, indirizzari poi acquistati dagli addetti ai lavori. È così che le nostre buche delle lettere si riempiono, soprattutto in queste settimane, di missive di ogni sorta. Ognuno cerca di tirare acqua al suo mulino e si moltiplicano le bizzarrie per attirare l’attenzione. Poche cose mi innervosiscono quanto ritrovarmi a ricevere decine di appelli a versare denaro. Cause nobili, ci mancherebbe. Eppure: un sottile senso di invadenza, l’irritazione per i messaggi che puntano al senso di colpa, la massa di carta che neanche si può riutilizzare visto che è stampata fronte e retro, in cento colori. Peggio mi sento con i regali, spesso di indistruttibile plastica. Dice la psicologia che se ricevo un omaggio, mi sentirò in dovere di restituire la cortesia. Un fenomeno alla base dell’umana società, che infatti celebra compleanni, feste religiose e laiche, ed ogni scusa è buona per portare fiori e cioccolatini. Intendiamoci, è bello donare, per la maggior parte delle persone dà persino più piacere che ricevere. E queste dinamiche sono alla base del complesso mondo dei conflitti di interesse, come sa bene l’industria. La questione delle regalie per ottenere donazioni, però, sembrerebbe esserci sfuggita di mano. K-Tipp, giornale dedicato ai diritti dei consumatori, è andato a fare i conti in tasca alle organizzazioni di beneficenza. Numeri francamente impressionanti. Prendiamo il colosso Helvetas. Quest’anno ha investito 40.000 franchi (sì, quarantamila) per acquistare 80.000 coltellini tascabili da inviare ai potenziali donatori. Ne ho ricevuto anche io uno e l’ho regalato a un nipotino e no, per principio non ho donato nulla in cambio. Pro Infirmis ha spedito un bloc notes con penna e dichiara ai colleghi di K-Tipp che fra quelli che ricevono un regalino il dieci per cento finisce per versare l’obolo, senza regalino solo il 2 per cento. Una mia cara amica di mestiere questo fa: lavora in un’organizzazione non governativa e si prende cura dei donatori. Come tutti gli specialisti del settore, scuote la testa empatica quando brontolo che la selva di lettere e la massa di regalini mi fanno venire il nervoso. Eppure conferma che non ci sono santi, basta un blocchetto di post-it a farci aprire il portafogli. Lei passa ore e settimane a scrivere a mano migliaia di lettere di ringraziamento. Perché, mi spiega, scritte a mano portano più soldi. Siamo un popolo di donatori – e di creduloni.

Pubblicato il

04.12.2019 20:48
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