«La domenica fate l'amore, non la spesa». Oppure «La domenica in gita quant'è bello, lascia stare quel carrello». E per i più duri d'orecchio «La domenica ti piace andare al centro commerciale? Fatti assumere». Siamo nel parcheggio del mega centro commerciale "I Gigli" di Campo Bisenzio, tra Firenze e Prato. E' la prima domenica d'ottobre, è in atto la manifestazione "Occupy Sunday" contro il lavoro obbligatorio dei commessi e delle commesse al dì di festa, tutti i dì di festa che dio comanda. Anzi a comandare non è dio ma Mario Monti che nel decreto 'salva Italia' ha decretato la liberalizzazione degli orari comunali per gli esercizi commerciali, domeniche incluse. Il governo sostenuto dal 90 per cento del Parlamento ha deciso senza sentire lavoratori, sindacati, amministratori locali. Al punto che persino il presidente della Regione Toscana, il democratico Enrico Rossi, ha contestato questa scelta perché, oltre a comportare sacrifici per i lavoratori, il lavoro obbligatorio per tenere aperti gli esercizi commerciali la domenica «non aumenta le vendite, né le assunzioni, né le buste paga».
Naturalmente supermercati e centri commerciali non sono obbligati a tenere aperto nelle festività, ma molte catene lo stanno già facendo provocando le proteste della Filcams-Cgil e di comitati di base. E a Firenze ad animare la protesta ai Gigli sono stati i giovani studenti e precari aderenti a Tilt, associazione vicina a Sel (Vendola). Commesse e commessi che protestano – in Veneto a organizzare lo sciopero è stata la Filcams – chiedono che vengano messi dei paletti al lavoro straordinario domenicale. Innanzitutto, al massimo è accettabile il lavoro una sola domenica al mese e non tutte come in molte realtà commerciali sta avvenendo; in secondo luogo, il lavoro domenicale può essere solo volontario; e dev'essere pagato come straordinario e non una cinquantina di euro per tutte le domeniche; infine, in cambio di un accordo di questo tipo le aziende devono mettere in campo un pacchetto di assunzioni. Alla base delle contestazioni c'è un'idea che in un paese a democrazia avanzata e ad alto tasso di sindacalizzazione dovrebbe essere acquisita, ma che con i liberisti al governo è stata rottamata: le modifiche dell'organizzazione del lavoro, turni, orari e riposi, devono essere contrattate dalle parti sociali e alla fine condivise. Ma il guaio del liberismo è che spesso le decisioni, oltre che autoritarie, sono il prodotto di deliri ideologici: tenere aperti gli esercizi un giorno in più alla settimana non aumenta le vendite, come dice il presidente della Toscana, ma le spalma semplicemente su più giornate. Tanto più che c'è la crisi che picchia sui carrelli e molto spesso la domenica passata al centro commerciale è soltanto un effimero rifugio dalla solitudine, una fuga dettata soltanto dall'alienazione e non dalla necessità di fare acquisti. Il centro commerciale diventa luogo di presunta socialità, e per questo la lotta delle commesse non incontra sempre la solidarietà dei cittadini aspiranti consumatori. Al contrario, a contestare per tutt'altre ragioni il lavoro domenicale è la Chiesa cattolica che rivendica la proprietà esclusiva del "giorno del Signore". Oltre alla benedizione papalina, la protesta contro l'obbligatorietà del lavoro domenicale ha trovato in molte città italiane la solidarietà dei piccoli commercianti e delle loro organizzazioni, che non riescono o non vogliono inseguire ipermercati e centri commerciali nella filosofia delle aperture full time, e di conseguenza vengono penalizzati.
Lavorare la domenica, spiega una commessa veneziana, «vuol dire rinunciare a stare con i figli e il marito nell'unico giorno in cui è possibile. Avere in cambio il lunedì libero non mi serve a nulla perché mio marito è al lavoro e i  figli vanno a scuola. Aggiungi che di domenica i mezzi pubblici passano con meno frequenza e sei costretta a prendere l'automobile, con un aggravio di spesa. Se poi una lavoratrice ha un figlio piccolo e nessun altro in casa, deve chiamare la babysitter. Il tutto per avere si e no 15 euro in più in busta paga per ogni domenica lavorata». La protesta, non solo in Italia, è partita grazie alla rete e all'autorganizzazione on-line via facebook, più che sotto la spinta dell'iniziativa sindacale. Gli appuntamenti si sono moltiplicati dopo la "giornata europea per le domeniche libere dal lavoro" promossa all'inizio di marzo dalla European Sunday Alliance a cui aderiscono associazioni, movimenti e sindacati (in Italia hanno aderito anche Cgil, Cisl e Uil). Le proteste sono iniziate in Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Campania e si stanno estendendo a tutta la penisola. Con qualche risultato già raggiunto, per esempio in Toscana dove la Unicoop che aderisce alla Lega delle cooperative ed è un gigante del commercio non ha sfruttato e non intende sfruttare la liberalizzazione degli orari. Capita invece che in altre realtà, per esempio nel sud del Lazio, i supermercati dello stesso gruppo (le "cooperative rosse") tirino su le serrande anche il 25 Aprile, festa della Liberazione e il Primo maggio, festa dei lavoratori.
Ma la crisi picchia duro e per i giovani non si vedono prospettive lavorative. Le crisi, da sempre, sono anche opportunità per le imprese che non fanno fatica a trovare risposte a tutte le loro esigenze. Qualche mese fa gli ipermercati Pam Panorama del Veneto hanno lanciato un'offerta per 400 posti destinati a studenti: almeno 8 ore di lavoro tutte le domeniche per un salario di 400 euro al mese. 9 mila giovani si sono fatti avanti, mentre le commesse loro coetanee manifestavano davanti ai centri commerciali contro il lavoro domenicale obbligatorio. Non è ancora la guerra tra poveri, ma ci andiamo vicino.

Pubblicato il 

12.10.12

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