Diversità culturale in pericolo

«Che differenza fra un film svizzero, una musica balinese, un romanzo del Burkina Faso e una bottiglia di Coca? Nessuna, se la cultura sarà abbandonata alle forze del mercato mondiale». «Vi aiuteremo, ma voi non programmerete i vostri film francesi per più di dodici settimane». Questa era una delle condizioni statunitensi del Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa dopo il 1945. Sessant’anni dopo, il cinema hollywoodiano totalizza l’85 per cento delle entrate a livello mondiale. Il medesimo discorso vale per la musica. Ci si avvicinerà ben presto al 100 per cento, se quest’anno l’industria audiovisiva sarà liberalizzata in seno all’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc). Laura Bush, moglie di George W., due anni fa celebrava a Parigi il ritorno degli Stati Uniti nell’Unesco intimando: «Non occupatevi di diversità culturale». Con queste parole, Diego Gradis, a nome della Commissione nazionale svizzera per l’Unesco (Cnsu), ha introdotto una riunione tenutasi alla fine del 2004 a Berna con una sessantina di esponenti del mondo culturale della Confederazione (cinema, tv, musica, arti, letteratura, etnologia, giornalismo, Ong, uffici federali). La Svizzera è quindi invitata a portare avanti la resistenza con la Francia, il Canada, come pure il Brasile, per difendere con fermezza la diversità culturale. A Parigi, dal 20 settembre scorso si sta negoziando su un progetto di Convenzione internazionale, che dovrebbe andare in porto nel giro di un anno. Non cominciate a sbadigliare! Non si tratta dell’ennesimo dibattito sull’aiuto alla cultura per addetti ai lavori. Questo trattato internazionale è altrettanto urgente della Convenzione sulla biodiversità, che lotta contro la sparizione galoppante delle specie. L’omologazione dei media e degli spettacoli, sempre più controllati da cinque o sei multinazionali, tende a imporre la caricatura del modello anglosassone. Ciò inasprisce la rabbia e la frustrazione di miliardi di persone, che si sentono culture dominate, escluse, disprezzate. Ne parla Dominique Wolton nel libro “L’Autre mondialisation” (Flammarion). Affermare il diritto di vivere la propria cultura come un diritto dell’uomo, incoraggiare la diversità come una ricchezza gradita, contribuisce sicuramente alla pace e alla sicurezza planetaria. Si tratta di un dibattito pionieristico, lanciato nella nostra società civile dalla Commissione nazionale svizzera per l’Unesco e dalle Ong “Traditions pour Demain” e Dichiarazione di Berna. Per molti, la diversità creatrice del nostro pianeta, i nostri modi di vita, i nostri valori e le nostre lingue sono minacciati dalla dilagante mondializzazione. Se non si riesce a far accettare all’Omc la produzione culturale come un prodotto speciale (quindi sovvenzionabile), essa sarà uniformata dal mercato mondiale. Un film svizzero, una musica balinese, un romanzo del Burkina Faso non avranno alcuna opportunità di fronte ai best sellers, venduti a suon di milioni dalla macchina pubblicitaria statunitense. Le politiche culturali degli Stati diventeranno illecite e saranno sanzionate. La sfuriata di Pascal Couchepin contro il cinema “sinistroide” a Locarno apparirà irrilevante, perché forse non ci sarà più un cinema svizzero, né di sinistra, né di destra. La liberalizzazione dei media audiovisivi, pretesa dalle industrie dello spettacolo, preoccupa anche Jean-Bernard Münch, presidente della “Srg-Ssr idée suisse”: «Costituisce un pericolo immediato per il servizio pubblico, garante del pluralismo e della diversità. Una convenzione sulla diversità culturale deve assolutamente fungere da contrappeso alle norme internazionali sul commercio, nonché aumentare la resistenza degli Stati alle pressioni del mercato. L’apertura, d’accordo, ma a condizione che i deboli possano coesistere con i forti». Il progetto preliminare, preparato da esperti indipendenti su mandato dell’Unesco, va nella direzione giusta. In particolare, preconizza un accesso libero ed equo alle diverse forme di creazione (quindi anche ai mercati), compreso il sostegno alla capacità di produzione culturale dei paesi poveri. Tuttavia ci sono numerosi punti deboli. Per prima cosa, la mancanza di sanzioni. E riuscirà, la nuova convenzione, a imporre il primato del diritto alla diversità sulle regole dell’Omc? Come trovare un linguaggio comune fra cultura e commercio? L’avvocato ginevrino Christophe Germann, produttore di film, propone ad esempio di legare la concessione della proprietà intellettuale (diritti d’autore per l’industria culturale) al rispetto della convenzione. Una via da esplorare. In ogni caso, il romancio Andrea Rascher, dell’Ufficio federale della cultura, ha le idee in chiaro sulle esigenze dei creatori svizzeri per i negoziati di Parigi. La sua unica preoccupazione è però che la convenzione sia efficace: «Non si tratta di ingrassare i burocrati della cultura. La cultura non è fatta dagli Stati, ma dai popoli, non è immobile, ma dinamica». Altri auspicano che non ci siano troppe rivendicazioni, per non far arenare quelle essenziali. Benissimo. Purtroppo il progetto dell’Unesco ha un altro difetto: si applica soltanto alla cultura che si vende e si compra. Ciò comporta il rischio, secondo “Traditions pour Demain”, di marginalizzare altre espressioni culturali. I produttori europei – e non solo – pur ammettendo che la convenzione permetterà loro di meglio resistere alla concorrenza statunitense, intravedono comunque il rischio di un pluralismo di facciata. Fra telenovele brasiliane, Bollywood indiano o 200 catene tv via cavo europee, si otterrà veramente qualcosa di diverso da una zuppa mondializzata, speziata un po’ differentemente, ma pur sempre omologata dalle regole di mercato? Un’offerta culturale vivificante, che risponda alle aspettative delle diverse società, che favorisca il dialogo fra civilizzazioni e il rispetto dell’altro? Non fantastichiamo. Non si otterrà nulla se le società civili non faranno pressione e se i consumatori non lo esigeranno. Giustappunto gli attori trascurati dal progetto preliminare dell’Unesco. Attualmente c’è malcontento contro il cibo spazzatura. A quando un movimento contro la cattiva informazione e la monocultura degradante? La resistenza svizzera vi contribuirà… forse.

Pubblicato il

11.03.2005 05:00
Daniel Wermus
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