Distanza di classe

C’è questa espressione, “distanza sociale”, sfacciata e insieme geniale. Sfacciata perché una semplice precauzione come lo stare prudentemente lontani da chi potrebbe contagiare o essere contagiato viene definita con un aggettivo che significa l’opposto: socio è chi sta vicino. Geniale perché è riuscita a far sparire quello che né la guerra fredda, né i governi democristiani né i governi liberaldemocratici sono stati capaci di eliminare del tutto, l’aspirazione dei popoli a vivere in una società giusta. Ora manca anche la parola per esprimere quella speranza. Se di distanza sociale si può parlare, allora è quella fra gli stipendi dei salariati di questo paese e la buonuscita di 72 milioni di franchi accordata nel febbraio 2013 dal consiglio di amministrazione della Novartis al presidente dimissionario Daniel Vasella.
 
Che cosa si fa mentre si è “distanziati socialmente”? Si comunica attraverso i “social”, ci si tiene in contatto virtuale con il proprio team, si sta nell’home office, si fa lo smart-working secondo i principi del results-based management, tutto un rutilare di termini inglesi riassumibili con il nostro laurà setà giò. Per fare tutte quelle cose seduti in casa occorre però avere una casa, essere allacciati ad acqua, luce, gas, telefono e rete, disporre dei soldi per pagare l’affitto, avere un lavoro per guadagnarli, insomma essere solvibili. E chi non è solvibile? E chi fa un lavoro manuale in tre dimensioni che non può essere svolto stando seduti davanti a uno schermo piatto? E chi fa parte di quella percentuale di cittadini non collegati alla rete per i loro buoni motivi? E chi può essere licenziato in ogni momento e non c’è futuro nella sua vita? E chi lavora da noi ma la sera deve tornare oltre confine? E chi è un rifugiato perché gli hanno distrutto la casa e la patria e tutta la sua solvibilità consiste in un sacchetto di plastica con dentro un’arancia?
 
Dal 2001, quando la sede milanese dell’Asea Brown Boveri (fino al 1989 Tecnomasio Italiano Brown Boveri, TIBB) venne trasferita a Sesto San Giovanni, il vecchio sito industriale in Piazzale Lodi ha subito diverse trasformazioni: via le officine dove lavoravano fino a 3.200 operai, via i magazzini, via il collegamento ferroviario con lo scalo di Porta Romana, è rimasto l’imponente palazzo della direzione e degli uffici, con l’ingresso monumentale un tempo riservato agli impiegati. Nell’ala del palazzo che dà su via Sannio, più dimessa, si trovava invece l’ingresso degli operai. All’epoca c’era una distinzione netta fra operai e impiegati, tra chi aveva addosso l’odore di lubrificante e di sudore e chi in cravatta rideva alle finestre quando il corteo con lo striscione “Zona Romana” partiva per il centro. Si può dire che la divisione di classe passava per quei due ingressi separati.
 

Sui 181.000 frontalieri francesi che ogni giorno varcano il confine con la Svizzera romanda, 30.000 lavorano nel settore delle cure ospedaliere. Sui 77.000 frontalieri italiani, 4.000 sono infermiere o inservienti negli ospedali, entravano con un permesso speciale nonostante il pericolo di essere contagiati, perché indispensabili. Indispensabili come quei 36 braccianti portoghesi prelevati nel loro paese con un volo speciale nel mese di maggio per fare la potatura verde nei vigneti del Vaud (era così difficile trovare 36 giovani romandi per eliminare i getti in sovrappiù delle viti? Si impara in un quarto d’ora). Oggi si può dire che la discriminante di classe passa fra chi può lavorare seduto nella propria casa e chi non può farlo.

Pubblicato il

26.06.2020 15:30
Giuseppe Dunghi