Nel settembre scorso, un gruppo di artisti e intellettuali hanno dato vita al manifesto “Artisti per la pace”, stilato dallo scrittore Fabio Pusterla che abbiamo intervistato. Con il manifesto contro la guerra e firmato “Artisti per la pace”, gli uomini di cultura del Cantone escono allo scoperto. Che cosa vi ha spinto ad elaborare un documento pubblico e qual è il vostro obiettivo? A spingerci è stata, innanzitutto, la gravità di quello che sta succedendo sulla scena internazionale, anticamera di una sempre più probabile guerra. Ci sono, inoltre, molti segnali inquietanti di fronte ai quali artisti e intellettuali hanno avuto l’urgenza di far sentire la propria voce. Fra questi anche coloro che negli ultimi anni, per ragioni diverse, si sono espressi attraverso il proprio lavoro artistico e letterario e hanno avuto poche occasioni per farlo pubblicamente. L’obiettivo era, ed è, sostanzialmente quello di sensibilizzare, far riflettere, al di fuori dei canali ufficiali, un po’ tutti su quanto sta realmente accadendo nel mondo Qual è lo spettro delle adesioni? È molto vasto. L’idea originaria non era quella di stilare un documento da far sottoscrivere solo agli esponenti di quella vaga categoria cosiddetta degli artisti. Come gruppo di operatori dell’ambito artistico e letterario, semplicemente volevamo lanciare un messaggio che poi tutti potessero sottoscrivere. Questo nonostante il titolo del manifesto, “Artisti per la pace”, nato un po’ per sbaglio e che ha dato l’errata impressione di un documento riservato ai soli artisti. Fortunatamente questo equivoco iniziale è stato subito superato, tant’è che hanno aderito poi le persone più diverse. Comunque il fatto che l’idea sia stata varata dagli artisti, ha aperto un canale privilegiato per coloro che operano nel mondo dell’arte. In Italia i girotondini capeggiati da Nanni Moretti, qui il vostro manifesto: gli uomini di cultura sembrano tornare a credere nel loro peso politico. È così? Credo ci sia l’esigenza, da parte di chi lavora nel campo della cultura, di dire la propria su temi gravi, e quindi di vincere sia quel silenzio in cui i tempi recenti hanno fatto cadere molti di noi sia le difficoltà oggettive in cui ci imbattiamo. Anche perché bisogna dire che l’accusa rivolta agli intellettuali di tacere tiene poco conto di quanto possa essere difficile intervenire sui mass media, più di quanto non lo fosse 20 o 30 anni fa. Riguardo al nostro peso politico, poi, personalmente credo sia poca cosa, ma sono altresì convinto che da questo poco si possa partire per cercare di bucare la coltre di conformismo e di silenzio che ci circonda. Qualche settimana fa, anche il drammaturgo Harold Pinter – in occasione della sua Laurea honoris causa conseguita all’Università di Torino – nel corso della sua “lectio magistralis”, si è scagliato contro lo strapotere degli Stati Uniti e contro la guerra. Un discorso che è un invito alla ribellione, a ritrovare il coraggio perduto ed uscire allo scoperto. Come non essere d’accordo? Certo è che questo strapotere degli Stati Uniti – senza confondere il governo Usa con gli americani – si manifesta in una certa leadership onnipresente che ha imposto anche negli ultimi tempi la propria volontà di dominio su tutto il mondo. Opporsi sembra un’operazione vana, ma d’altra parte è anche l’unica possibilità di sopravvivenza dignitosa di cui disponiamo. Inoltre, sappiamo così poco di quanto succede all’interno di questa superpotenza e diamo per scontata una sua compattezza dietro Bush o dietro l’ipotesi di guerra. Quando invece per contro emergono segnali di frizioni interne, di opposizioni. Credo dunque ci sia un margine, se non per scongiurare questa guerra - ciò va al di là delle nostre possibilità -, per aprire una discussione su quanto succede nel mondo, per non lasciare che tutto passi sulle nostre teste senza reagire. Il manifesto, cui hanno aderito numerose personalità, sta dunque assumendo la funzione di catalizzatore di energie? Una forza che può aprire un varco nell’indifferenza e nell’ignoranza? Quanto sta accadendo sembrerebbe paradossale. Proprio in questi mesi dove tutto pare incanalarsi, al di sopra delle volontà individuali, dei diritti democratici, persino dei singoli paesi, in un’unica direzione quasi impossibile da modificare, ebbene proprio in questo momento si assiste al ritorno di un rinnovato fervore e interesse. E ciò è motivo di speranza. I piccoli catalizzatori di energie (nelle forme del manifesto, del girotondo, della serata-dibattito, degli appelli, ecc.) ci indicano che nell’aria c’è effettivamente qualcosa di nuovo. Credete davvero che esista uno spazio d’ascolto nell’opinione pubblica a questo tipo di iniziative? È difficile valutare quanto tutto questo possa raggiungere quella che viene chiamata “opinione pubblica”, che forse non esiste più in maniera così monolitica come la s’intende comunemente. Credo, invece, esistano tante opinioni pubbliche per raggiungere le quali bisogna trovare i linguaggi giusti. Ma anche in questo frangente stanno emergendo segnali incoraggianti. La stessa Svizzera e l’Europa non sono più così compatte dietro le parole d’ordine ufficiali. Si capta una certa stanchezza, inquietudine e diffidenza, elementi che possiamo cercare di incentivare, di rendere più espliciti e più riflessivi. Chi ha finanziato il vostro manifesto? È nato da una forma di autofinanziamento. In seguito abbiamo potuto giovarci del sostegno – sotto varie forme – di coloro che hanno sottoscritto il manifesto e dei simpatizzanti, grazie anche ai quali è stato possibile realizzare questa piccola iniziativa. Chiedete “di diffidare dell’informazione ufficiale, di resistere alla persuasione occulta che i media eserciteranno su di noi (…)”. Non pensa che ciò denoti un’eccessiva sfiducia in un’intera categoria? La domanda è più che lecita. Vorrei però precisare che non c’è sfiducia nella categoria dei giornalisti ma nel mezzo, nel canale che è quello dei mass media. Se ripensiamo agli avvenimenti bellici degli ultimi quindici anni, vediamo come alla vigilia delle operazioni militari la buona volontà dei singoli giornalisti, il loro spirito critico, sono come paralizzati dagli stessi eventi. Le informazioni, le immagini, sono tutte passate al setaccio, controllate: a senso unico. È a questo che alludiamo. Fortunatamente, per il momento, c’è ancora uno spazio di discussione all’interno del mondo giornalistico e dei mass media. Temiamo però che tra breve - in prossimità di una guerra - questo spazio si riduca di molto.

Pubblicato il 

13.12.02

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