Ho appena partecipato ad un dibattito televisivo sulla votazione attorno alla regolamentazione «dei termini». Non voglio tornare sul tema in questa rubrica ma comunicare a chi legge «area» qualche considerazione che mi è venuta alla mente nei lunghi tempi di attesa che attorniano sempre la partecipazione a simili discussioni. Gli anni passano e mi vengono alla mente i discorsi che si tenevano nel 1997, in occasione di una votazione su una iniziativa parlamentare sul medesimo tema e di tenore non molto diverso. In un quarto di secolo sono cambiate molte cose. Innanzitutto i toni. Gli insulti reciproci sembrano essere finiti e non si può che rallegrarsene. Su entrambi i fronti si riconosce che il problema dell’aborto è anche ma non solo un problema di scelte morali. Sia i partigiani che gli avversari della soluzione ora proposta dal governo e dal parlamento mettono in evidenza alcune convergenze parziali. Tutti affermano di voler proteggere la vita prenatale e l’autonomia della gestante. Le divergenze riguardano i mezzi per raggiungere questo fine comune. Ma anche i fronti classici si ridisegnano. Così ieri sera difendevo la regolamentazione dei termini, come teologo e studioso di etica, accanto al parroco del mio paese di nascita, e senza scomuniche reciproche. Un fenomeno che può piacere a molti ma che al contempo può anche provocare insicurezza e stupore in altri. In altre parole i dibattiti su molti problemi alla frontiera tra diritto e morale, tra etica, scienza e politica, si sono fatti sì più civili, ma al contempo anche maggiormente complessi. Proprio settimana scorsa, e quindi alla vigilia della votazione popolare, il Consiglio Federale ha messo in consultazione un progetto di legge riguardante la ricerca sugli embrioni umani. Ci sono buoni argomenti per aver scelto questa data, ma mi chiedo se l’opinione pubblica riesca ancora facilmente a decifrare i punti di contatto e di diversità tra i vari problemi proposti a discussione e decisione. Ma di fronte alla complessità non si può che rispondere con la fatica dell’informazione e della sensibilizzazione fatta con la precisione ed i dettagli richiesti. Anche i «politici di mestiere» dovranno raccogliere ancora più carta ed i partiti organizzare ulteriori giornate di studio. Ma non c’è altra via passabile, anche per la sinistra. Le scorciatoie del populismo, sia esso di segno «contro» che quello che alcune case farmaceutiche ci propongono su carta patinata, sembrano farci guadagnar tempo, ma lo perdono poi nei meandri della democrazia diretta. Anche l’espertocrazia, da sola, non ci porta lontano. Non resta che la democrazia davvero partecipata e con le sue fatiche.

Pubblicato il 

31.05.02

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