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Deutsche Telekom appesa al filo
di
Tommaso Pedicini
Dalla Opel alla Ford, da Karstadt alla Deutsche Bank in Germania ormai sembra una gara a chi razionalizza in modo più drastico. I posti di lavoro tagliati dai grandi gruppi tedeschi negli ultimi mesi sono nell’ordine delle diverse decine di migliaia. L’annuncio che ora anche l’ex monopolista della telefonia, Deutsche Telekom, ha deciso di mettere alla porta ben 32 mila dipendenti nei prossimi 3 anni è solo l’ulteriore conferma di una triste tendenza. La notizia, diffusa oltre un mese fa da un portavoce aziendale, ha dato grande slancio al titolo di Deutsche Telekom in borsa. Le ristrutturazioni, si sa, servono spesso a scalare la classifica dell’indice Dax. Per nulla euforici, invece, gli oltre 170 mila dipendenti, solo in Germania, del colosso delle comunicazioni che da settimane si chiedono quale sarà la loro sorte. Da quel poco che è trapelato dei progetti della direzione, ad essere particolarmente colpiti dai tagli saranno soprattutto i Länder orientali Sachsen, Sachsen-Anhalt e Turingia, dove la mancanza di lavoro è di per sé un problema endemico. Oltre a perdere addetti nel settore della telefonia fissa (il comparto maggiormente colpito dalla ristrutturazione), nei Länder della ex Ddr non ci saranno nuove assunzioni nei settori tecnologici di punta, quali il cablaggio dei centri urbani con la fibra ottica per internet a banda larga. Nel settore delle nuove tecnologie l’Est del Paese è, paradossalmente, più avanzato rispetto ai Länder occidentali. Anche sui nuovi posti di lavoro (Deutsche Telekom parla di 6 mila probabili assunzioni nel settore delle nuove tecnologie), non c’è, però, ancora alcuna garanzia. L’azienda ha indicato come condizione per la creazione di nuova occupazione il monopolio federale per internet veloce. Ma da Bruxelles hanno già fatto sapere che una simile ipotesi non è percorribile. In realtà i problemi di Deutsche Telekom nascono proprio dall’aver perso, ormai da anni, la guerra al ribasso (dei prezzi) nel settore tradizionale della telefonia fissa e dal non aver mai particolarmente brillato in quello della telefonia mobile. Dalla fine del monopolio e da quando lo Stato non è più l’unico proprietario dell’azienda, la Telekom è stata scavalcata in patria da una serie di piccoli, agguerriti, concorrenti che hanno iniziato ad offrire chiamate urbane e interurbane a prezzi stracciati, mentre le scalate e le partecipazioni di Deutsche Telekom a gruppi stranieri (dalla Russia ai Balcani) non hanno mai portato i frutti desiderati. Quando Kalus-Dieter Hanas del sindacato del terziario Ver.di parla di comportamento «estremamente scorretto» riferendosi ai licenziamenti annunciati da Deutsche Telekom, la memoria corre ai 60 miliardi di euro di debiti realizzati dall’azienda negli anni scorsi, tra Germania ed estero, e appianati già una volta a spese dei lavoratori con un altissimo numero di prepensionamenti e liquidazioni e l’ormai classico aumento delle ore di lavoro a salario invariato. Un motivo di rabbia in più per le migliaia di dipendenti del gruppo scesi in piazza contro la direzione in tutte le grandi città tedesche nelle ultime settimane. Il sindacato ha annunciato una dura resistenza ai piani aziendali, rispondendo ai tagli con un progetto occupazionale che va nella direzione del miglioramento dei servizi e di più innovazione e minacciando uno sciopero ad oltranza, nel caso Telekom rifiuti il tavolo delle trattative. Sconcertante, infine, la completa afasia del governo su questa vicenda. Confermando la tendenza a non sentirsi parte in causa nelle contrapposizioni tra imprese e lavoratori, Angela Merkel imita Gerhard Schröder e rimane alla finestra. Peccato solo che, controllando ancora una buona fetta dell’azienda (il 37 per cento), il governo, oltre al diritto, abbia anche il dovere di battere un colpo.
Aeg, casse piene ma delocalizza
Il dio della globalizzazione chiede, giorno dopo giorno, tributi sempre più consistenti ed insensati. Nemmeno una tradizione ultracentenaria e la garanzia di prodotti di qualità bastano ormai ad evitare ristrutturazioni e delocalizzazioni. Per averne un’ulteriore conferma basta guardare cosa sta avvenendo in queste settimane a Norimberga, in Baviera. Il gigante svedese Electrolux, che negli anni scorsi aveva acquistato la tedesca Aeg, rilevandone tutti gli impianti, ora ha deciso di disfarsi di quello che un tempo era il fiore all’occhiello dell’azienda di elettrodomestici e di trasferire, entro la fine del 2007, tutta la produzione in Polonia ed in Italia. Per i quasi duemila operai impiegati nel grande stabilimento di Norimberga la decisione della proprietà significa la perdita del posto di lavoro. L’azienda giustifica la delocalizzazione con l’alto costo del lavoro in Germania e la necessità di rimanere competitiva a livello internazionale, ma, come fa notare l’Ig Metall, il sindacato metalmeccanico, la Aeg di Norimberga è una realtà che fa registrare da anni profitti considerevoli e i cui elettrodomestici (oltre un milione e mezzo di lavatrici e lavastoviglie prodotte ogni anno) sono tra i più apprezzate dai consumatori europei. Ma se la decisione dell’Electrolux di trasferire la produzione verso mercati del lavoro più convenienti non costituisce di per sé una novità nel contesto della globalizzazione, quello che colpisce nel caso Aeg è l’intransigenza del gruppo svedese nei confronti degli operai di Norimberga. Ai lavoratori e all’Ig Metall che da giorni hanno bloccato la produzione e manifestano per il mantenimento dei posti di lavoro, o quantomeno per ottenere prepensionamenti e liquidazioni dignitose, l’Electrolux ha risposto minacciando detrazioni dalle buste paga e la chiusura anticipata dell’impianto. «Le proteste delle maestranze non ci spaventano – ha dichiarato Horst Winkler, uno dei top manager del gruppo – i nostri depositi sono pieni e non siamo ricattabili». E mentre gli operai di Norimberga si preparano a votare uno sciopero ad oltranza senza speranza di riuscita, anche la politica mostra tutti i suoi limiti. L’accorato appello di Erwin Huber, ministro bavarese dell’Economia, all’Electrolux perché torni sulla sua decisione, o almeno vari un piano sociale per i lavoratori colpiti, è caduto nel vuoto. La globalizzazione non si ferma nemmeno di fronte alle proteste dei politici moderati.
Pubblicato il
23.12.05
Edizione cartacea
Anno VIII numero 51-52
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