Ristrutturazioni, fallimenti, chiusure, licenziamenti: in Svizzera il settore dei negozi d’abbigliamento è in crisi profonda. Una delle principali cause di questa situazione è sicuramente la concorrenza che arriva dal commercio online, soprattuto a seguito dell’arrivo sul mercato svizzero di un colosso internazionale come Zalando. Di fronte al boom dei negozi virtuali e all’internazionalizzazione del commercio al dettaglio, le principali catene elvetiche sembrano avere accumulato un ritardo troppo consistente. Basta un sondaggio tra i nostri conoscenti per capirlo: sempre più persone acquistano i propri vestiti online. Rapido, disponibile ad ogni momento, tutto alla portata di un click (e di un pin), lo spazio virtuale ha ormai preso la dimensione della boutique. Funziona anche per le scarpe, un prodotto che di solito occorre provare: «Ne comandi tre numeri e due li mandi indietro» ci spiega un amico, più avvezzo di chi scrive alla spesa in rete. Al di là di questa sensazione personale, alcuni recenti studi confermano questo trend. Il più attuale, realizzato dall’Associazione svizzera di vendita per corrispondenza e dall’istituto Gfk, è stato pubblicato lo scorso mese di marzo. La progressione del commercio online è confermata: nel 2016 gli svizzeri hanno acquistato su Internet per circa 7,6 miliardi di franchi, ciò che rappresenta una crescita dell’8,3% rispetto ai dati del 2015. Oltre all’elettronica domestica, il settore a essere toccato maggiormente dal commercio online è quello dell’abbigliamento. In che modo questa crescita si ripercuote sulla crisi che attraversa attualmente il settore del commercio di abiti? Un altro studio, pubblicato a gennaio da Credit Suisse, afferma che le difficoltà che subiscono attualmente molti dettaglianti di prodotti non alimentari «si spiegano in parte con l’aumento del commercio elettronico». Lo studio indica che nel segmento dell’abbigliamento il commercio online potrebbe rappresentare da qui al 2022 il 27% della cifra d’affari. In questo contesto, lo studio di Credit Suisse sottolinea che «la concorrenza spietata con il commercio online unitamente al franco forte hanno gravato sul commercio di abbigliamento e calzature anche nel 2016. I fatturati nominali hanno infatti registrato un calo complessivo del 7,0% rispetto al 2015; andamento che in presenza di prezzi leggermente più alti rispetto all’anno precedente non può che ascriversi alla flessione della domanda (-8,2% rispetto all’anno precedente). La situazione per il segmento abbigliamento e calzature appare pertanto tutt’altro che distesa». Un’emorragia continua E che la situazione sia tutt’altro che distesa lo dimostra il bollettino di chiusure e avvicendamenti che si sono susseguiti negli ultimi due anni. Procediamo con ordine. Il 17 maggio uno degli storici marchi svizzeri, Charles Vögele, ha annunciato la terza ondata di soppressione d’impieghi dal 2016: 160 posti, che concernono i centri logistici di Pfäffikon e Freienbach nel Canton Svitto. La società d’abbigliamento, creata 62 anni fa, è stata acquistata nel dicembre scorso dal gruppo d'investitori Sempione Retail, il cui 35% appartiene a Ovs (ex Oviessse), leader italiano del prêt-à-porter. I nuovi proprietari hanno deciso subito di esternalizzare la distribuzione e di affidarla al centro di Piacenza gestito dalla Xpo Logistics, multinazionale della logistica nota per la sua politica anti-sindacale. Per Vögele non si tratta della prima riduzione di personale: nel gennaio di quest'anno la catena svittese aveva già annunciato 100 licenziamenti sempre a Pfäffikon, nei settori degli acquisti e del design, anch’essi delocalizzati in Italia. Già ad inizio del 2016, una cinquantina di posti di lavoro era sparita presso la sede di Pfäffikon, la metà dei quali tramite licenziamenti immediati. Sono anni che la ciffra d’affari di Vögele regredisce. Nel 2015 le perdite nette sono state di 62 milioni di franchi, nel 2014 di 11 milioni e nel 2013 di 30 milioni. In Svizzera, nel 2015, le vendite sono diminuite del 7,5% a causa anche, come è scritto nel rapporto annuale 2015, dello sviluppo del commercio online. Il 12 maggio è invece stato il turno di Globus Uomo e Schild, catene di negozi attive nel settore dell'abbigliamento, che verranno raggruppate sotto il marchio Globus, a sua volta controllato dalla Migros. La misura, effettiva a partire dal 2018, comporterà la cancellazione di 80 posti nella centrale di Spreitenbach, nel canton Argovia, dove attualmente ce ne sono 400 (60 erano già stati soppressi nel 2015). In causa anche «i forti concorrenti internazionali stazionari nonché i nuovi offerenti online, che hanno modificato fondamentalmente il mercato e il comportamento dei clienti». Un mese prima la catena di negozi d'abbigliamento friborghese Yendi, che dava lavoro a quasi 500 persone in 84 filiali in Svizzera, ha chiesto l'avvio di una procedura di fallimento. Lo scorso anno una sorte simile era toccata alla catena solettese Blackout, che ha chiuso una sessantina delle 92 filiali che contava fino al 2016, tra cui le quattro con sede in Ticino. Sempre nel 2016 va ricordata la chiusura dei 29 negozi elvetici di Bata, che ha colpito 175 salariati in Svizzera su un totale di 300. Il gruppo basato a Losanna, ha additato anch’esso la concorrenza dell’online come una delle principali cause che hanno portato a questa drastica ristrutturazione. Resistono solo i grandi Insomma, l’e-commerce sembra essere la causa principale della crisi del settore e giustificazione di tutte le misure di ristrutturazione effettuate a danno del personale. Eppure, rispetto ad altri paesi, l’e-commerce elvetico, misurato in base al fatturato complessivo del commercio al dettaglio, si attesta ancora su livelli relativamente bassi. Inoltre, la quota persa dal commercio tradizionale svizzero negli ultimi sei anni (8,3 miliardi di franchi) è molto più grande rispetto a quella guadagnata dal commercio in rete (2,4 miliardi di franchi): ciò significa che la gente spende meno o spende all’estero. Per Natalie Imboden, responsabile del commercio al dettaglio di Unia, l'emorragia degli impieghi nell'abbigliamento sarebbe dovuta anche al fatto che le catene della moda svizzere non sono riuscite a cogliere in tempo la sfida del commercio elettronico: «Direi che hanno dormito e che ora devono far fronte alla concorrenza internazionale; l’unico modo per resistere è quello di investire nel personale, per garantire un servizio che l’online non può dare, e nell’innovazione per cercare di colmare il ritardo accumulato». I gruppi più fragili e meno innovativi hanno nel frattempo chiuso o sono stati ristrutturati. Di fronte alla concorrenza dei giganti del commercio online, alla potenza dei loro algoritmi e dei loro robot umani nei centri logistici, a resistere sono così soltanto i produttori di nicchia ad alto valore aggiunto o i grandi gruppi internazionali del fast fashion, come la spagnola Zara (521 milioni di euro di utile netto nel 2016, +28% rispetto al 2015) e la svedese H&M (2,1 miliardi di franchi di utile netto, -11% rispetto al 2015). Gli enormi volumi di merce prodotti in paesi in cui la mano d’opera costa poco e in cui le condizioni di lavoro sono disumane, così come le aggressive pratiche di ottimizzazione fiscale, permettono di offrire abiti accattivanti a prezzi imbattibili. Per tutto il resto c’è Zalando.
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