Deriva Skinhead

Il regista ginevrino Daniel Schweizer è ormai uno dei conoscitori più profondi della scena Skinhead. Sono anni infatti che Schweizer gira il mondo per ricostruire le caratteristiche e la storia di questa sottocultura giovanile nata da una costola del reggae e poi deviata sempre più verso l’estremismo di destra. Grazie a queste ricerche ha realizzato tre documentari cinematografici: il primo, “Skin or Die” del 1998, in cui osservava dall’interno un gruppo svizzero di skinhead e che fece molto scalpore; il secondo, “Helldorado”, del 2002, incentrato sulla vita dei punk di oggi; infine “Skinhead attitude” ha concluso lo scorso anno la trilogia ricostruendo per la prima volta in un documentario e con immagini spesso inedite i quarant’anni di storia del movimento. “Skinhead attitude” ha avuto una discreta circolazione nei festival e nelle sale della Svizzera tedesca, facendo pure qualche apparizione in Ticino. L’intervista con Schweizer che segue, raccolta al Festival di Locarno 2003, parte dalla genesi del suo ultimo film per metterne in luce alcuni degli aspetti più problematici che solleva. Daniel Schweizer, come ha fatto ad ottenere la fiducia dei gruppi estremisti più radicali che ha filmato, in particolare quelli della scena scandinava? L’accettazione è stata progressiva. Con “Skinhead attitude” m’interessava capire la storia del movimento e i suoi paradossi. Per far questo avevo bisogno di loro: le immagini di Ian Stuart sulle origini del movimento skinhead sono infatti tutte conservate in Svezia dal gruppo “Nf 88”, che ha in qualche modo assunto l’eredità di Stewart e del gruppo “Skrewdriver” quando egli morì. Le televisioni hanno pochissimi documenti d’archivio sulle origini del movimento. Questi primi contatti hanno funto da test: una volta che ero in Danimarca per visitare la sede del partito nazista danese mi hanno avvicinato del tutto inaspettatamente chiedendomi se, per saperne di più, non volevo andare ad assistere a “Midsummer”, il loro raduno estivo che si svolgeva in Svezia proprio in quei giorni. Si trattava però di salire subito in auto e partire. È così che ho cominciato a conoscere “Blood and Honour”, il gruppo faro della scena svedese. La radicalità e la disponibilità all’uso della violenza dei gruppi scandinavi Skinhead impressionano. Da dove viene questo spaventoso potenziale di violenza estrema, da una concezione troppo tollerante della democrazia? È un paradosso che bisogna capire, ma non ho risposte chiare. So solo che in Scandinavia hanno trovato rifugio molti estremisti radicali che hanno dovuto fuggire dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, e così via. Oggi in Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia ci sono le strutture che rendono questi paesi una centrale di smistamento e di coordinamento per l’estremismo di destra violento in Europa e non solo. Bisogna aver paura di questa radicalizzazione? Attualmente la scena radicale skinhead è fortemente tentata dalla deriva del terrorismo. È una tendenza che viene dagli Stati Uniti, dove si è già passati alla pratica, e che sta mettendo radici in Europa. La retorica è quella della guerra inevitabile, della spaccatura del mondo e della necessità di difendersi. Le frange più estreme non teorizzano più la supremazia della razza bianca, ma la sua progressiva sparizione: questi gruppi sostengono che la loro lotta è ormai disperata e che tutti i mezzi sono buoni pur di preservare la razza bianca dall’estinzione. Anche il terrorismo. Ora che la posta in gioco è molto più alta è dunque necessaria una lettura politica diversa di questi movimenti. Come giudica la reazione delle autorità a questo pericolo? La classe politica è completamente disorientata. Ci si limita a sperare che questi giovani invecchiando diventino più saggi e maturi. In Svizzera c’è un forte scarto fra il momento in cui i fenomeni estremisti si manifestano e quello in cui essi vengono riconosciuti: per questo la loro comprensione ci sfugge totalmente. Forse è questione anche di mancanza di volontà politica: sta di fatto che non abbiamo una griglia per capire quanto di nuovo si sta muovendo nella scena dell’estremismo di destra in Svizzera. Più in generale i gruppi di destra sembrano non disturbare molto i servizi segreti e la polizia. Anzi, ci sono casi flagranti di collusione, ad esempio fra i servizi segreti britannici e l’estrema destra skinhead: il gruppo “Combat 18” ad esempio è stato usato per passare armi agli orangisti irlandesi contro l’Ira. Che idea si fanno gli esponenti della scena skinhead del loro futuro? Gli skin di estrema destra hanno un’immagine del loro futuro piuttosto pessimista. Sanno di avere poche possibilità di successo con metodi democratici, per cui ci provano con il caos. Il loro progetto passa necessariamente da una destabilizzazione della democrazia e dall’idea di una guerra razziale che scoppia in diverse parti del mondo così da dividere il pianeta e ritrovarsi con territori etnicamente puri. È una visione apocalittica come strumento per la presa del potere. Che rapporti hanno i movimenti skinhead radicali con i partiti politici di destra quali l’Udc? È un gioco tattico. I legami con partiti come l’Udc, il Fronte nazionale o il British Party sono indiscutibili. Diventa allora davvero decisivo sapere se tutta l’Udc si riconosce nelle regole della democrazia. Credo che in questo momento i movimenti di estrema destra hanno la capacità di proporre a questi partiti degli accordi e delle alleanze per far avanzare le loro strategie: hanno una reale capacità di contrattazione. Essi stanno pure rifiutando le strutture piramidali per prediligere le piccole cellule organizzate orizzontalmente. Si tratta di cellule che sono disposte con molta più facilità a passare alla lotta radicale e violenta. In questo modo non mettono in pericolo le strutture dei partiti politici già affermati. È un modello americano, ma anche in Svizzera ci sono molti esempi rivelatori in questo senso. In origine erano di sinistra Il movimento skinhead ha avuto origine nella classe operaia, fra giovani che ascoltavano musica reggae e che si ritrovavano senza distinzione di classe sociale, di razza ecc… Daniel Schweizer, perché oggi i giovani skinhead finiscono col farsi strumentalizzare molto spesso da gruppi di estrema destra? Il vantaggio dell’estrema destra rispetto alla sinistra è di avere un messaggio politico forte, per quanto semplicista. I giovani in cerca di punti di riferimento vi trovano facilmente una famiglia in cui hanno l’impressione di contare qualcosa. I gruppi antirazzisti si sono così sfilacciati, mentre i gruppi estremisti di destra riescono a fare facilmente del proselitismo presso gli adolescenti con una sottocultura fatta di musica, di moda e di slogan. Oggi questi adolescenti hanno l’impressione che l’unica lotta possibile contro questa società passi da una lotta contro la democrazia. E in questo l’estrema destra radicale è molto vicina ai loro bisogni. Una delle spiegazioni nel suo film al fatto di diventare neonazisti è l’opposizione adolescenziale ai valori e ai miti dei genitori: è il ’68 che si morde la coda? Sì, ed è inquietante che i leader dei gruppi neonazisti abbiano capito i meccanismi della ribellione adolescenziale e abbiano saputo recuperare delle pulsioni normali ad una certa età per strumentalizzarle in un discorso politico radicale. Certi simboli come il teschio, la croce celtica, le ombre e il segreto affascinano gli adolescenti. Molti di loro all’inizio non sono affatto interessati al messaggio politico, ma solo alla musica e alla simbologia. Ma, come ammettono gli stessi skinhead radicali, nei raduni c’è il 50 per cento di musica e il 50 per cento di politica. Poco a poco questi ragazzi sono quindi coinvolti sempre più in un discorso politico radicale. È solo questione di ignoranza del passato? Credo ci sia una specie di ricerca di impegno. D’altro canto il discorso estremista di destra s’è evoluto: non si tratta più di affermare di essere neonazisti o neofascisti anzi, si nega questa identità per affermare di essere bianchi, “white power”, nazionalisti. Lo stesso messaggio viene dunque veicolato con altre parole apparentemente più accettabili, con maggiore legittimità. In Svizzera basta guardare le manifestazioni del 1° agosto come quella del Grütli, dove arrivano dei sedicenti nuovi patrioti: non sono semplicemente dei nazionalisti, ma degli estremisti che, sotto la copertura del nazionalismo, diffondono una propaganda estremista, propugnano una chiara bipartizione della società e hanno come obiettivo da colpire la democrazia. Al Grütli si ritrovano per ripetere il giuramento fondatore della Confederazione: questo significa che non si riconoscono più nella Svizzera di oggi con il suo sistema democratico di rappresentanti eletti dal popolo. Come vivono gli skin apolitici e di sinistra la loro identità? Con molto disagio, perché devono sempre giustificarsi di fronte agli altri, alle autorità, ai media, dicendo di non essere neonazisti. Ma è vero che sentono il bisogno di rivendicare la loro storia, la purezza delle loro origini: i redskin che vedono il mio film proprio per questo mi sono riconoscenti. I media dominanti hanno occultato questo lato della medaglia preferendo cementare gli stereotipi più comuni: è certamente più rassicurante demonizzare tutto il movimento piuttosto che interrogarsi sulle motivazioni di chi ha un’identità skin senza essere violento, così non ci si mette in discussione. Ma oggi ci si deve seriamente chiedere come sia stato possibile che una sottocultura di sinistra sia stata plagiata così violentemente dall’estrema destra, tanto da offuscarne completamente storia, linguaggi e contenuti. Gli skin di sinistra sono condannati alla sconfitta? Intanto sono costretti all’opposizione agli skin fascisti. E il crollo dei regimi di sinistra in Europa orientale li pone in una posizione di difesa nostalgica del passato. I gruppi di skinhead di sinistra sono dunque più piccoli e assai peggio organizzati di quelli di destra.

Pubblicato il

09.07.2004 05:00
Gianfranco Helbling