Dalle tute blu alle mezze maniche

Oggi, venerdì 13 febbraio, in Italia centinaia di migliaia di lavoratori metallurgici e dipendenti del pubblico impiego incroceranno le braccia per dire «questa crisi non la paghiamo noi». È la prima risposta di massa alle politiche classiste per fronteggiare le drammatiche conseguenze sociali generate dalla crisi finanziaria. Una risposta che arriva da un unico sindacato, la Cgil, mentre gli altri si accodano al volere padronale. Tutto ciò avviene in un paese dove sul piano politico istituzionale la destra non incontra nessuna opposizione.

Tute blu, camici bianchi e mezze maniche, tutti insieme appassionatamente. La chiamano «unità anticrisi», è la prima grande risposta di massa alla più sgangherata e classista tra le politiche attivate dai vari governi europei per fronteggiare le drammatiche conseguenze sociali della crisi economica e finanziaria. È la prima volta che in Italia le due categorie di lavoratori storicamente più distanti – operai metalmeccanici e dipendenti del pubblico impiego – decidono di scioperare insieme e insieme manifestare nelle strade di Roma. Oggi, venerdì 13 febbraio, qualche centinaia di migliaia di salariati provenienti da tutto il paese con più di mille pullman e decine di treni speciali accerchierà i palazzi del potere, per gridare «la vostra crisi non la vogliamo pagare noi».
Cos'hanno in comune gli operai della Fiat, che passano ormai la maggior parte del loro tempo in cassa integrazione con salari decurtati che non arrivano a 800 euro, con le infermiere degli ospedali o i ministeriali? I primi producono – produrrebbero - ricchezza economica per il paese, ma con il crollo della domanda friggono sulla graticola della crisi, i secondi forniscono servizi per tutti, o meglio vorrebbero fornirli: i tagli continui del welfare pubblico, la riduzione dei finanziamenti agli enti locali, la privatizzazione dei beni comuni, la riduzione dei salari degli operatori imposti dal governo Berlusconi determinano un doppio disastro di cui tutti i salariati pubblici e privati pagano le conseguenze. Cresce la disoccupazione, i precari vengono rispediti a casa, crollano i salari, la scuola e la sanità diventano privilegi per benestanti.
Per tutte queste ragioni, per chiedere un intervento pubblico nell'economia che freni i deliri liberisti e orienti le grandi scelte, invertendo la tendenza all'aumento delle forbici della disuguaglianza, per estendere a tutti gli ammortizzatori sociali che oggi tutelano una parte minoritaria del lavoro dipendente, la Fiom-Cgil e la Funzione pubblica Cgil hanno rotto ogni indugio e persino qualche timidezza della loro confederazione dichiarando lo sciopero generale e la manifestazione unitaria.
È una risposta politicamente corretta al governo e ai padroni che tentano di scaricare in basso i costi della crisi, mettendo lavoratori pubblici («i fannulloni») contro quelli privati, i contratti a tempo indeterminato contro i precari e i lavoratori al nero, gli operai «indigeni» contro quelli migranti che insieme al lavoro perdono il diritto a restare in Italia. Ciò nonostante, pubblici e metalmeccanici marciano e scioperano insieme.
Si tratta di un fatto politico, un'opportunità per tutti in una stagione politica, più che depressa disperata. Berlusconi sta cambiando la costituzione materiale del paese e pretende di cambiare anche la Carta costituzionale iniziando con la cancellazione dell'art. 1: «L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo...». Proprio l'Art. 1 ha fatto dire a Berlusconi che la nostra è una Costituzione «sovietica», dunque va cambiata a costo di sciogliere le Camere. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è quotidianamente fatto oggetto di attacchi volgari e delegittimanti da parte del governo, per non parlare dell'aggressione contro la magistratura. Sta saltando con leggi ad hoc l'equilibrio costituzionale basato sulla separazione dei tre poteri dello stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Torna in mente «l'aula sorda e grigia» di mussoliniana memoria. In pochi mesi, poi, è stato rovesciato come un calzino l'insieme dei diritti del lavoro, a partire dal sistema contrattuale con la sterilizzazione dei contratti nazionali. Obiettivo realizzato attraverso la rottura dell'unità sindacale e l'arruolamento sul carro del vincitore di Cisl e Uil per isolare la maggiore confederazione, la Cgil.
C'è uno squilibrio preoccupante tra la gravità della crisi politica, economica e istituzionale che mette a rischio la stessa democrazia e un'opposizione parlamentare che non va oltre i vagiti: solo nei due ultimi minigolpe – l'introduzione di norme razziste contro gli immigrati e i rom, costringendo i medici a violare il giuramento di Ippocrate denunciando i pazienti irregolari, e lo scandaloso e antiticostituzionale comportamento del governo sulla tragica vicenda di Eluana Englaro – si è visto qualche timido sussulto.
La sinistra, diventata extraparlamentare, sta suicidandosi in un conflitto interno che rischia di portarla alle elezioni europee di primavera con quattro liste contrapposte, destinate al massacro da una legge elettorale oscena che introduce una soglia del 4 per cento. Una legge concertata dalle destre e dall'agonizzante Partito democratico. Ebbene, in quest'Italia violentata dalla destra e lasciata allo sbando dall'opposizione, c'è un pezzo – verrebbe da dire eroico – di sindacato che non ci sta, e invita tutti i democratici a provare a ricostruire insieme regole democratiche e diritti.
L'altro pregio della mobilitazione dei lavoratori metalmeccanici e pubblici – i due sindacati numericamente e politicamente più importanti della Cgil – è di trainare su posizioni «di sinistra» (si può ancora dire, almeno in Svizzera?) il sindacato guidato da Guglielmo Epifani. Un punto di riferimento, la speranza di rimettere in movimento l'opposizione sociale e politica del Belpaese.

Pubblicato il

13.02.2009 04:00
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