Dal continente senza immagini

In un’epoca dominata dalle immagini l’Africa rimane, tranne eccezioni, un continente di cui non vediamo nulla, un continente senza immagini. Mentre la guerra in Iraq piuttosto che l’11 settembre o lo tsunami ci sono stati mostrati in ogni loro sfaccettatura, il continente nero rimane in gran parte lontano dall’attenzione dei media. Grande valore assume allora il lavoro di documentazione che dal 1989 sta realizzando in Africa il fotografo luganese Didier Ruef. Un lavoro confluito in un bel libro (“Afrique noire”, edizioni infolio) e in una mostra che si inaugura oggi, venerdì 18 febbraio alle 18, al museo d’arte di Mendrisio, e che durerà fino al 3 aprile (aperta tutti i giorni dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 17, lunedì chiuso). La mostra presenta 142 fotografie in bianco e nero realizzate in nove paesi dell’Africa subsahariana (Uganda, Mozambico, Ruanda, Etiopia, Sudan, Burundi, Angola, Guinea e Camerun) fra l’89 e il 2001. Si tratta di immagini di vita quotidiana, spesso scattate seguendo il lavoro di Medici senza frontiere e che, anche nella concitazione del momento, hanno sempre una notevole pulizia formale, quasi fossero state messe in scena. Immagini che, fra mille contraddizioni, testimoniano della forza di popolazioni che non sono disposte a rinunciare alla loro dignità. Ruef ce ne parla in questa intervista. Didier Ruef, perché l’Africa? Sono nato e cresciuto in un ambiente molto internazionale, a Ginevra, ma sempre fra bianchi. Ho cominciato ad avvicinare il mondo nero a New York nel periodo 1985-86, quando studiavo fotografia e avevo deciso di realizzare un lavoro su una famiglia di portoricani nei dintorni di Spanish Harlem. Ho seguito quella famiglia nera per un anno e mezzo. Questo mi ha fatto venire il desiderio di andare in Africa. Sentivo il fascino di un continente scuro. Quando sono tornato a Ginevra nell’87 per caso sono entrato in contatto con la sezione svizzera di Medici senza frontiere, e questo mi ha permesso di fare un primo servizio nell’89 su un loro campo profughi in Uganda. Giunto per la prima volta a Kampala mi sono sentito quasi a casa. Ma lavorando a contatto con la popolazione locale mi è piaciuta soprattutto l’Africa dei villaggi, un mondo meno scontato. Il suo è stato amore a prima vista? Sì, da subito ho amato l’Africa, e da allora ci sono sempre ritornato. Anche se con una certa fatica, perché nelle redazioni dei giornali non c’è interesse per l’Africa, a meno che non hai una catastrofe da vendere: ma una storia se non positiva, almeno di normalità, non interessa. Il secondo reportage l’ho quindi potuto fare solo nel ’92 in Mozambico. C’è qualcosa che unisce tutti questi paesi che ha visitato? I reportage sono nati dall’interesse di chi me li commissionava. Ma il libro e l’esposizione raccolgono sotto il titolo “Africa Nera” tutto quanto ha un rapporto diretto con l’Africa subsahariana. Tutti questi paesi tranne il Camerun hanno in comune la guerra, più o meno recente, se non imminente. Come fotografo non ho riscontrato un modo diverso di rapportarsi al mio lavoro da un paese all’altro. Un etnolgo o un antropologo avrebbero certamente notato molte differenze nel modo di vestirsi, di comportarsi, di vivere. Ma questo a me non interessava. Io volevo piuttosto mostrare la forza e la vitalità di questo continente, malgrado le incredibili difficoltà cui gli africani devono far fronte ogni giorno: e questo lo si nota in tutti i paesi che ho visitato. Lei però la guerra non l’ha fotografata. Direttamente no. Ho fotografato le conseguenze della guerra, le sue tracce sono evidenti ovunque. Come definirebbe il suo modo di fotografare? Cerco di fare quella che in inglese si dice essay photography: una fotografia che riflette lo sguardo dell’autore con la sua cultura, la sua anima, che cerca di far crescere qualcosa dal suo soggetto. Sono il soggetto e il fotografo che creano la fotografia. Qual è la difficoltà maggiore per un bianco che fa il suo mestiere in Africa? C’è una barriera molto chiara fra il bianco e il nero. Ma i neri sentono se un bianco che si avvicina loro li ama o li odia. Per questo faccio sempre dei viaggi lunghi di almeno un mese durante i quali mi prendo il tempo necessario per conoscere le persone, per parlare con loro, per visitare a piedi le zone in cui vivono e lavorano: e questo loro lo rispettano. Inoltre ci vuole cautela anche nel modo di avvicinarsi al soggetto. In Cina ad esempio si può fotografare senza problemi e senza preavviso, mentre in Africa è molto facile risultare aggressivi: se si viene percepiti in questo modo ci si trova subito di fronte a delle barriere che poi è difficile abbattere. Ecco perché non uso il teleobiettivo: mi avvicino sempre al mio soggetto, non sto mai nascosto. Ho sempre bisogno il consenso delle persone che fotografo, non rubo le immagini. C’è una difficoltà tecnica particolare nel lavorare in Africa? La difficoltà maggiore la si incontra fotografando a colori. Ma tutto questo lavoro è stato fatto in bianco e nero. Questo mi dà una grande latitudine di lavoro: non è necessario il flash durante il giorno, posso interagire meglio con la pellicola che mi dà molte più sfumature e posso lavorare quando voglio, perché la luce bianchissima del giorno non è un disturbo come per il colore. A posteriori cosa la colpisce riguardando questi reportage realizzati sull’arco di 15 anni? Impaginando il libro mi ha colpito la continuità nella forma visiva e nel calore di queste fotografie. C’è sempre un miscuglio fra immagini dure, di sofferenza, e immagini di gioia, di speranza. Il tutto alla fine si lega bene, dando l’immagine di un’Africa vera, autentica, con le sue difficoltà e le sue emozioni.

Pubblicato il

18.02.2005 04:30
Gianfranco Helbling