Invitato dall'Assemblea di sciopero, il 5 dicembre scorso sono stato a Bellinzona a dire due parole sulla presenza della storia sociale nella nostra narrativa: basterebbe questo, immagino, per infastidire i leghisti di casa, che qualche giorno prima avevano vilmente e insensatamente attaccato, sul loro settimanale, un intellettuale che ha osato parlare di cultura, un musicologo come Carlo Piccardi, uno dei nostri pochi intellettuali che intervengono pubblicamente su temi che esulano dalla propria disciplina: in questo caso su "L'italianità del Ticino: cultura e anticultura" (Corriere del Ticino, 20 novembre). L'hanno attaccato perché è proprio la cultura che dà fastidio alla Lega. Ma veniamo al 5 dicembre. Il sindacato, un tempo, si proponeva di educare il popolo con biblioteche rosse, conferenze, attività educative. Ora tutto ciò è tramontato; però il fatto che Pusterla ed io siamo stati chiamati, in occasione dell'agitazione sindacale, a far entrare la letteratura negli interstizi della politica, mi sembra sintomo di una sensibilità anticonformista rispetto all'economicismo imperante. Che cosa ho detto agli scioperanti di Bellinzona, scarsamente presenti nella saletta della Casa del Popolo? Una cosa semplice: i narratori, nel nostro paese, raramente hanno ascoltato la voce degli operai, inserendole in quella che un tempo si chiamava "la questione sociale"; un'eccezione è il recente libro di Paolo Di Stefano, La catastròfa, sui tragici fatti di Marcinelle. La nostra storia sociale è ricca di moti sindacali, studiati dagli storici (ricordo solo le edizioni della Fondazione Pellegrini-Canevascini) ma assenti da romanzi e racconti. L'unico nostro scrittore-operaio che si è preso a cuore la lotta di classe è Sandro Beretta, bleniese emigrato a Zurigo, che ha messo al centro della sua opera il "rancore della povera gente, per le cose che sfuggono al nostro potere e contro le quali non vale rivoltarsi uno alla volta". E l'unica opera che si occupa specificamente di uno sciopero, quello dei minatori italiani impegnati nel traforo ferroviario del San Gottardo del 1875, è stata scritta da una donna italiana emigrata in Svizzera: Attilia Fiorenza Venturini, autrice di Gli angeli della dinamite. Per quanto mi riguarda, ho rievocato in Terra matta gli scioperi delle sigaraie d'inizio secolo nel Mendrisiotto. E nel mio ultimo libro, La prossima settimana, forse, do vita alla figura luminosa di un emigrante ticinese che a Lisbona diventò, nella seconda metà dell'Ottocento, libraio e rivoluzionario, contribuendo a fondare il Partito socialista portoghese e animando le agitazioni degli operai. Una figura completamente diversa da quella, subalterna e rassegnata, tradizionalmente descritta dai nostri narratori.
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