Dopo le pesantissime condanne al carcere (da 6 a 28 anni) del 3 aprile contro 75 oppositori e l’esecuzione all’alba dell’11 aprile delle sentenze capitali contro tre dirottatori, Cuba è nella bufera. Esattamente quello che l’amministrazione nord-americana voleva («Cuba non è nella lista dei nostri prossimi obiettivi militari – ha detto il ministro della difesa Usa, Donald Rumsfeld –. Per ora»), quello per cui ha lavorato almeno da quando, nel settembre scorso, Bush ha mandato a dirigere la Sezione di Interessi all’Avana lo spudorato James Cason. Cuba e Fidel sapevano benissimo che il duro giro di vite contro il dissenso – sia quello “pacifico” sia quello cruento dei sequestri di aerei e imbarcazioni – avrebbe provocato reazioni durissime. «Misure dolorose», le ha definite il ministro degli esteri Felipe Perez Roque. «Misure energiche», si legge nella lettera inviata agli “amici lontani” (e angosciati) da 27 star mondiali della cultura cubana (vedi box): «Cuba è pienamente cosciente del costo politico delle misure che si è vista obbligata a prendere». Perché si sente in guerra, è convinta che dopo l’Afghanistan e l’Iraq «il vertice fascista» che fa capo a Bush e «alla mafia terrorista di Miami» (a cui Bush deve la sua controversa elezione alla Casa Bianca) stia «preparando il terreno per l’aggressione militare» e cerchi solo un «pretesto»: una «crisi migratoria» di massa del tipo di quelle dell’80 e del ’94, oppure la scoperta di «armi di distruzione di massa» del tipo di quelle imputate a Saddam Hussein (e il fatto che non se ne sia trovata traccia, finora, non lo ha salvato). Fidel e Cuba hanno assunto un atteggiamento duro, di sfida, si difendono attaccando, si dicono pronti a pagare i prevedibili e annunciati “costi politici” ed economici. Senza guardare in faccia a nessuno. Né a molti degli “amici lontani” (dai Nobel José Saramago, portoghese – vedi box –, e Dario Fo, italiano, all’uruguayano Eduardo Galeano, dal regista spagnolo Pedro Almodovar a Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil italiana), né al papa che gli ha mandato un appello accorato in cui chiedeva «un significativo gesto di clemenza». Bush ha annunciato subito il prossimo indurimento delle sanzioni con cui da 40 anni – e invano – gli Usa cercano di strangolare il regime castrista. Si parla del blocco dei voli charter che da Miami e New York hanno ripristinato una sorta di collegamento con Cuba e delle rimesse che i cubani dell’esilio possono ora mandare a familiari e amici rimasti nell’isola. Invii che possono arrivare per legge a 1200 dollari l’anno a testa ma che in totale fanno fluire in un’economia sempre col fiatone intorno al miliardo di dollari nell’arco dei 12 mesi. La risposta dell’Avana è stata secca e immediata: «L’economia cubana e i suoi servizi sociali possono resistere alla sospensione dei benefici, dipinti come grandiosi, delle rimesse o dei voli charter o di qualsiasi altra misura», si leggeva in una nota ufficiale pubblicata dal Granma del 18 aprile. In realtà quelle misure, e le altre annunciate negli Stati Uniti e in Europa, avrebbero effetti pesanti su un quadro economico – e quindi sociale – assai pesante. L’economia cubana, che dipende in larga misura dall’estero, risente della crisi e della recessione mondiali. Gli sforzi e i tentativi di parte del business e del Congresso Usa (specie i deputati degli Stati agricoli del Mid-West) per alleggerire l’embargo, che hanno registrato nel corso degli ultimi anni alcuni risultati positivi, vanno a sbattere con l’ostinazione reazionaria di Bush e i suoi debiti elettorali con l’ancor poderosa lobby anti-castrista della Florida. E, adesso, anche con le reazioni negative all’ondata repressiva. Dopo la drammatica caduta degli anni ’90, seguita al collasso dell’Unione Sovietica e del blocco socialista, che aveva ridotto della metà il Prodotto interno lordo cubano, l’economia dell’isola si è ripresa, grazie a misure dolorose e controverse (da un punto di vista dell’“egualitarismo socialista”) quali la legalizzazione del dollaro e le joint-ventures con imprese capitaliste europee e canadesi. Ma ora l’economia è di nuovo in crisi. Il turismo, la voce numero uno del bilancio cubano insieme con le rimesse in dollari, ha risentito degli effetti negativi degli attentati dell’11 settembre 2001. Dopo anni di crescita ininterrotta, nel 2002 è caduto del 5% e le cose non sembra che miglioreranno quest’anno. Le esportazioni cubane – ancora e sempre lo zucchero, il nickel, i prodotti farmaceutici – sono passate dai 1,7 miliardi di dollari del 2001 agli 1,4 miliardi del 2002 ed è prevedibile un’ulteriore riduzione alla fine del 2003 (nel 1988, l’anno prima della caduta del Muro, furono di 5,4 miliardi). L’aumento rilevante dei prezzi petroliferi si è fatto sentire pesantemente su Cuba – nonostante la mano generosa data dal Venezuela di Hugo Chavez –, costretta ad importare più della metà del greggio che consuma. Anche l’alternativa europea all’embargo Usa, su cui si è aggrappata Cuba e che dava segnali sempre più promettenti (nonostante le pressioni e le minacce di ritorsione di Washington), è destinata a risentire degli effetti negativi dell’egemonia americana sul mondo e dell’ondata repressiva nell’isola. L’Unione Europea, che è la numero uno quanto a investimenti, commerci, cooperazione e aiuti, appena un paio di mesi fa aveva aperto all’Avana un proprio ufficio di rappresentanza mentre a Bruxelles sembravano vicino alla conclusione positiva i negoziati bilaterali per l’adesione di Cuba agli Accordi di Cotonou (che legano la Ue ai 77 paesi dell’ACP, Africa, Caraibi e Pacifico). Ora i funzionari europei hanno già cominciato a lasciare gli uffici di rappresentanza all’Avana mentre a Bruxelles sono state annunciate “inevitabili ripercussioni” sui negoziati per l’entrata di Cuba negli accordi ACP. La reazione cubana è stata come al solito di sfida: «Non accetteremo condizionamenti di alcun tipo. Abbiamo già ritirato una volta la nostra richiesta di adesione. Siamo pronti a farlo di nuovo», ha detto il ministro Roque Perez. La situazione di Cuba è angosciosa perché, come ha scritto Eduardo Galeano, «Cuba ci fa male».

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01.05.03

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