Cuba, il Papa, la democrazia e una società in cambiamento

Questa settimana Benedetto XVI è stato a Cuba, per una visita che ha suscitato molto interesse a livello internazionale: erano varie migliaia i giornalisti accreditati. L'evento rientra in un quadro politico abbastanza preciso.
Un po' più di quattro anni or sono avevo diretto una delegazione parlamentare svizzera a Cuba: durante quel soggiorno avevo avuto un lungo colloquio con il cardinale cubano Jaime Ortega. Ne avevo tratto la convinzione che la chiesa cattolica avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel processo, che allora si cominciava solo ad intravedere, di rinnovamento dell'esperienza rivoluzionaria cubana. Da una parte il cardinale mi aveva sorpreso affermando che per lui il pericolo maggiore veniva non dai comunisti e tanto meno da Fidel, ma dalle sette evangeliche. Il suo giudizio sulla situazione cubana mi era parso poi molto oggettivo: dopo aver riconosciuto i progressi acquisiti nel campo dell'educazione e della sanità, aveva sottolineato che c'erano sì problemi con i diritti umani, ma che questi erano di molto inferiori a quanto sbandierava la propaganda statunitense. Mi aveva tra l'altro garantito che egli aveva accesso, quando e come voleva, alle prigioni cubane. Si era poi detto sicuro che, se Washington avesse anche solo ammorbidito un po' la sua posizione, sarebbe stato possibile risolvere il problema di quel centinaio di detenuti politici che ancora c'erano: mi aveva invitato a sollecitare il governo svizzero, affinché facesse da mediatore. Purtroppo Micheline Calmy-Rey, poco interessata ai problemi dell'America latina, non aveva poi reagito. Nel frattempo di prigionieri politici ormai non ce ne sono praticamente più, grazie alla mediazione del cardinal Ortega, che ha avuto un ruolo anche nell'ottenere quel minimo ammorbidimento realizzato da Obama (possibilità di viaggiare a Cuba per alcuni statunitensi, e per gli emigrati cubani negli Stati Uniti di mandare soldi ai loro parenti, alcuni voli supplementari tra Miami e l'Avana). La società cubana sta rapidamente cambiando, da quando negli ultimi 18 mesi si è iniziato un processo di rinnovamento, che vuol far uscire il paese da una stagnazione ormai insopportabile. Due sono gli scopi immediati della riforma: da una parte dinamizzare il settore agricolo, aumentando l'autonomia dei contadini per far sì che Cuba non debba più importare l'80% del fabbisogno alimentare. Dall'altra si tratta anche di ridurre la pletora degli impiegati statali e quindi il peso della burocrazia, permettendo l'attività in proprio ad una serie di artigiani e piccoli commercianti e contemporaneamente aumentando la libertà d'iniziativa delle piccole industrie. È evidente che Cuba sta applicando almeno parzialmente alcune delle "ricette cinesi": questo m'era stato annunciato in vari colloqui da esponenti del Partito comunista cubano. Mi dicevano: «Noi dobbiamo imparare da loro per quanto riguarda l'economia, loro devono imparare da noi come conservare le conquiste sociali e la partecipazione popolare». Da noi Cuba viene definita dai media come non democratica, semplicemente perché alle elezioni non possono partecipare più partiti. Discuterò un'altra volta di questa concezione feticistica della democrazia che snobba l'intensa discussione, che in occasioni come questa avviene a Cuba. Da quanto so, le attuali misure economiche sono state discusse in più di 60 mila incontri avvenuti capillarmente nel paese. Da questi incontri sono scaturite diverse nuove proposte, mentre parecchie di quelle iniziali sono state ritirate. Ora mi trovo in El Salvador, in quanto quel governo mi ha chiesto una perizia sulle strutture oncologiche del paese. Da lì andrò poi per qualche giorno a Cuba: arriverò poco dopo la partenza del Papa. La prossima volta vi parlerò quindi dell'atmosfera e di che cosa si dice a Cuba dopo la visita del Pontefice.

Pubblicato il

30.03.2012 13:30
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