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Cuba dentro e fuori dal ring
di
Gianfranco Helbling
Hanno vinto la loro scommessa Stefano Knuchel e Ivan Nurchis, i due registi ticinesi che per il loro primo documentario si sono cimentati con il mondo della boxe cubana. Ne è nato “Nocaut”, un lavoro convincente che con il pretesto del pugilato parla in realtà della società cubana contemporanea, sospesa in un’età di mezzo nella quale è impossibile riconoscere i tratti della piena maturità. A far da guida lungo tutto il film è il giornalista Elio Menendez, massima autorità nel campo della boxe a Cuba, di cui ha seguito tutta l’evoluzione dalla rivoluzione castrista ad oggi. Si incontrano così campioni del calibro di Teofilo Stevenson, Felix Savon o Orlando Martinez, giovani talenti come Dayron Lester, ma anche personaggi più umili, dagli allenatori ai massaggiatori. Tutti che si considerano al servizio del loro paese e della causa rivoluzionaria attraverso lo sport. Lo sguardo di Knuchel e Nurchis è partecipe ma non acritico, empatico ma non soggiogato. Eppure “Nocaut” ha avuto parecchie difficoltà ad uscire in Svizzera, accusato da molti gestori di sale (soprattutto in Romandia) di essere opera di propaganda. Tanto che il distributore di fatto ci ha rinunciato. Soltanto ora “Nocaut” ha trovato e a fatica la via delle sale cinematografiche (è in questi giorni al Lux di Massagno), pur avendo riscosso lusinghieri consensi in occasione della prima alla Settimana della critica del Festival di Locarno 2004. Decisamente migliore l’accoglienza in Italia, dove il distributore accompagnerà l’uscita del film con un dvd ricco di ulteriori materiali. Quanto a Cuba, il film è stato proiettato lo scorso dicembre al Festival dell’Avana e uscirà nelle sale nel corso del 2006. In questa intervista Stefano Knuchel e Ivan Nurchis raccontano il loro film.
“Nocaut” è stato girato in pellicola: una scelta oggi costosa e coraggiosa per il primo documentario di due registi non ancora affermati. Perché questa scelta?
Nurchis:
I primi incontri e i primi sopralluoghi a Cuba li abbiamo filmati con delle piccole camerette digitali per avere del materiale su cui cominciare a lavorare. Ma subito abbiamo capito che questo film sarebbe stato necessario girarlo in pellicola. Cuba è un paese talmente ricco di sfaccettature che risulta difficile da gestire. La pellicola è stata un modo per darci rigore nel lavoro: ci siamo imposti un’accurata preparazione per poi poter scegliere al momento delle riprese con cura e coerenza ciò che volevamo filmare e come lo volevamo filmare escludendo ciò che sarebbe stato inutile o controproducente. È stato difficile convincere i finanziatori in Svizzera della necessità di girare su pellicola. Quando con la nostra determinazione abbiamo superato le diffidenze, poi il sostegno è stato incondizionato.
Knuchel:
L’uso della pellicola era funzionale all’impostazione del lavoro, cioè ragionare su ciò che si stava facendo e non farsi trasportare dagli eventi. L’uso della pellicola per noi non è un dogma: aveva però senso in questa precisa situazione. Anche perché tecnicamente il digitale non regge come la pellicola le forti luci e i grandi contrasti di Cuba. Infine l’uso della parola a Cuba è diverso che da noi: non si può andare lì e semplicemente filmare tutto ciò che si vede, perché si darebbe credito a tutto quel che viene detto. Occorre un filtro dato dal distacco che l’uso della pellicola impone nel momento in cui si comincia a girare.
Nurchis:
Del resto questo nostro approccio, riflessivo e distaccato, ci ha permesso un accesso a luoghi, materiali e documenti che a Cuba non possono circolare (ad esempio le foto con il pugile Teofilo Stevenson di un Fidel inconsueto, che ride e scherza, in contrasto con l’iconografia classica). Stabilendo delle regole chiare abbiamo ottenuto la fiducia dei nostri interlocutori. Troppi infatti sono stati i film su Cuba fatti filmando tutto quel che si poteva filmare e poi montandolo scorrettamente per dimostrare questa o quella tesi. Con il nostro approccio questo non sarebbe stato possibile e i cubani l’hanno capito.
Non c’è mai stato nessuno che volesse “guidare” il vostro film, portandovi dalla persona “giusta” perché dicesse la cosa “giusta”?
Nurchis:
Questo è capitato all’inizio. Abbiamo avvertito una certa ansia dovuta proprio al fatto che troppi registi sono andati a Cuba per confermare la loro visione dell’isola, cioè di un paese vittima di una tremenda dittatura e completamente allo sbando. Mentre preparavamo il film abbiamo quindi avuto a che fare con molti personaggi legati al governo. Ci siamo allora detti che l’unica soluzione era essere onesti e sinceri con loro per dimostrare schiettamente quali fossero le nostre intenzioni, così che questo filtro cadesse al più presto e noi potessimo effettivamente lavorare sulla realtà che più ci interessava. Così è avvenuto: alcuni di questi personaggi sono spariti, altri hanno cambiato atteggiamento. La chiave è stata l’onestà: l’idea stessa di bugia pare del tutto estranea alla mentalità cubana.
Avete lavorato con una troupe mista svizzera e cubana. Che esperienza è stata?
Nurchis:
Ci tenevamo in maniera particolare, non tanto per gli aiuti pratici che avremmo potuto avere, ma perché appunto era un’esperienza che volevamo vivere. Da noi c’è il mito dei vecchi maestri del cinema cubano, ma devo dire che questo mito corrisponde alla realtà: le persone che hanno lavorato con noi sono personaggi splendidi con una notevole professionalità. A livello umano è stata un’esperienza straordinaria, che ci ha cambiato anche nel nostro modo di vedere la vita.
Knuchel:
Questa collaborazione però non ha influito sull’estetica del film. Certo loro hanno delle capacità tecniche, dalle conoscenze della luce sull’arco di una giornata a quelle della rete elettrica cubana, che sono state fondamentali nella pratica. Però prima di partire abbiamo definito esattamente cosa e come lo volevamo filmare, scena per scena, inquadratura per inquadratura, e al 90 per cento il risultato finale rispecchia quanto fissato nello storyboard.
Qualcuno ha rimarcato il razzismo evidenziato dal film: anche a Cuba a prendersi a pugni sul ring sono in definitiva soltanto i neri.
Knuchel:
Il pugilato per tradizione è lo sport dei disperati, della classe sociale più bassa, che anche a Cuba è quella dei neri. Certamente qualcosa in positivo con la rivoluzione è cambiato, ma in pochi decenni non è possibile sradicare un’attitudine che è profondamente iscritta nella cultura di un popolo. Di fatto è quindi vero che c’è del razzismo, nel senso che a combattere ci vanno quasi soltanto dei neri. Però questo dagli stessi protagonisti non è vissuto come una tara o un handicap, anche perché questi pugili sono obbligati a studiare e a farsi una formazione che apre loro delle possibilità fuori dal ring.
Che idea avete del sistema pugilistico cubano, che per molti tratti ricorda l’industria dello sport negli ex paesi del blocco comunista?
Knuchel:
Ci sono degli aspetti, come le massime scritte a caratteri cubitali nelle palestre, che per il resto del mondo appartengono al passato. Indubbiamente la boxe cubana in buona misura è superata dagli eventi. Ma qualcosa in comune con loro credo che l’abbiamo. Se a Cuba si è perso la spinta ideale del comunismo, qui si è perso l’ideale di libertà che il mercato avrebbe dovuto garantire e preservare: oggi ci accorgiamo che la degenerazione nel liberismo ha annientato anche qualche nostro sogno, per cui un “Nocaut” sarebbe certamente possibile girarlo anche sulla boxe svizzera. In definitiva molto dipende da qual è il valore ultimo su cui si misura la riuscita di un progetto di società: se sono la ricchezza o la libertà individuali abbiamo vinto noi. Se invece è la felicità non ne sono così sicuro. Ma per riconoscerlo è necessario che accettiamo e rispettiamo una sfera di riferimenti e di valori diversa dalla nostra. E questo implica in primo luogo distinguere Cuba da Castro. In questo senso forse il nostro documentario è filocubano: vuole indurre a vedere quel paese e a rispettarlo per quello che è. “
Nocaut” è quindi più un film sulla società cubana che sulla boxe?
Knuchel:
Lo spero. Qualcuno ci ha rimproverato di non avere un approccio critico verso la società cubana. Secondo me invece un percorso in questo senso nel film c’è, e culmina nella disillusione e nel logorio del finale. D’altro canto non mi pare possibile avere oggi una visione lucida sul divenire della società cubana. Io credo che il nostro documentario uno spaccato di vita dei cubani ce lo mostri: spero che sia effettivamente uno sguardo documentario, cioè privo di ogni ideologia.
Una delle scene più significative è quella girata nel parco dei divertimenti intitolato a Lenin, un parco e una scena di rara tristezza.
Nurchis:
Il parco Lenin già solo per il nome è carico di significati. Lì abbiamo girato la scena con Felix Savon, che per molto tempo pensava che si sarebbe confrontato con Tyson in quello che sarebbe stato il match fra i più grandi pugili contemporanei: ci interessava vederlo in un luogo legato più ad una dimensione privata e famigliare. D’altro canto il parco Lenin è frequentatissimo, molte famiglie ci vanno e si divertono, per i cubani è il massimo che ci si possa immaginare mentre per noi è intriso di una fortissima atmosfera di tristezza: esso ci dimostra che qualcosa s’è guastato nel modello cubano, qualcosa di cui forse i cubani non sono del tutto consapevoli. Significativo è quando Savon dice in quel parco ormai cadente che vorrebbe insegnare ai suoi figli il rispetto per il benessere conquistato: un benessere che letteralmente si sfalda sotto i suoi occhi, ma lui non se ne avvede.
Come viene recepito “Nocaut” dagli spettatori cubani?
Knuchel:
Alcuni trovano conferma della giustezza della via cubana al comunismo ed escono rinfrancati. Altri invece si commuovono nel finale perché ci vedono il loro sogno che va spegnendosi. D’altro canto ci sono immagini che possono risultare innocue per noi ma che fanno reagire in maniera anche viscerale i cubani. Stevenson ad esempio è un’icona e un mito al pari del Che, e loro rimangono molto disturbati nel vederlo parlare al buio in un angolo del ring, con le braccia allargate come se fosse crocifisso: per loro non è così che si mostra un campione. Ma a noi quell’immagine serve a rendere la complessità della dimensione di un campione che è stato grande ma che oggi soffre e vive il malessere di un difficile adeguamento alla società cubana contemporanea.
Pubblicato il
02.12.05
Edizione cartacea
Anno VIII numero 48
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